Avv. Fabio Pierdominici

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R.G. n. 2032/2005

TRIBUNALE DI BOLOGNA

RECLAMO AL COLLEGIO EX ART. 669 terdecies C.P.C. (R.G. 4936/05)

avverso

l'ordinanza del G.I. Dott. Antonella PALUMBI, depositata il 24.3.2005 e comunicata il 25.3.2005, nella procedura d'urgenza ante causam, attivata dai Sig.ri PROTTI Emilia, cod. fisc. PRT MLE 55E51 H294M, e TOSTI Luigi, cod. fisc. TST LGU 48M03 C704G, entrambi res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38, rappresentati e difesi nel presente procedimento dall'Avv. Fabio Pierdominici e dall'Avv. Ugo Lenzi in virtù di procura in calce al precedente ricorso ed al presente reclamo, elettivamente domiciliati in Bologna, Via Marconi n. 1, presso lo studio dell'Avv. Ugo Lenzi.

F A T T O

Con ricorso d'urgenza i coniugi Protti-Tosti hanno adito questo Tribunale esponendo quanto segue.

  1. La Corte di Cassazione penale, Sez. IV, con sentenza del 1.3.2000 n. 4273 (Montagnana), pronunciandosi sul caso del prof. Montagnana Marcello, che era stato processato per il reato di cui all'art. 108 del D.P.R. 30.3.1957 n. 361 per "essersi rifiutato di assumere l'ufficio di scrutatore a causa della presenza del crocifisso nel seggio elettorale", avev assolto l'imputato stabilendo che "costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario dell'ufficio elettorale la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo della laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'ORGANIZZAZIONE elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali del crocifisso o di altre immagini religiose". La Corte di Cassazione aveva espressamente ritenuto, in motivazione, che "va pure aggiunto che, peraltro, quelle norme (cioè le norme regolamentari anteriori al Concordato, che contemplavano l'ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche: n.d.r.), in quanto non prevedono una rimozione del simbolo religioso ogni volta che l'aula venga messa a disposizione dell'amministrazione dell'interno per lo svolgimento delle operazioni elettorali, si pongono -non diversamente da quelle interne- in contrasto con lo spirito garantistico ed imparziale della superiore legislazione elettorale: la quale si preoccupa di impedire forme simboliche di comunicazione iconografica, non ammettendo per esempio "la presentazione di contrassegni riproducenti immagini o soggetti religiosi" (art. 14 u. co. d.p.r. 361/57 e succ. mod.)".

  2. Orbene, i ricorrenti PROTTI Emilia e TOSTI Luigi, iscritti nelle liste elettorali del Comune di Rimini, il giorno 13.6.2004 si sono recati presso la Sezione elettorale n. 6 per esprimere il voto per le elezioni europee.

  3. Quivi giunti, però, hanno constatato, con estrema meraviglia, la presenza di vistosi crocifissi in tutti i seggi elettorali e, in particolare, nel seggio elettorale n. 6: aderendo essi -per fermo convincimento morale- al principio supremo della laicità dello Stato, si sono subito rifiutati di votare per quella stessa "manifestazione di libertà di coscienza", legata alla presenza del crocifisso, che era stata fatta valere dal prof.Marcello Montagnana, già nel lontano 1994, allorché questi si era rifiutato di adempiere all'obbligo di espletare le pubbliche funzioni di scrutatore.

  4. Questa motivazione -che suscitava l'ilarità di due scrutatori- veniva immediatamente esternata al Presidente di Seggio, con l'ovvia pretesa che venisse dato atto nel verbale delle operazioni elettorali il motivo del loro rifiuto di votare, imputabile all'Amministrazione Italiana che, incurante della sentenza della Cassazione n. 439/2000, nonché delle numerosissime ed analoghe sentenze della Corte Costituzionale e di altri giudici di merito, seguitava a venire meno ai suoi obblighi di imparzialità e neutralità, accordando anacronistici "privilegi" alla sola ideologia religiosa dei "cattolici".

  5. Il Presidente del Seggio si collegava allora, telefonicamente, con la Prefettura di Rimini chiedendo "come comportarsi": l'interlocutore lo invitava ad interpellare i due cittadini "se erano disposti a votare nell'ipotesi in cui il crocifisso fosse stato rimosso dal seggio temporaneamente, cioè per il tempo loro necessario per esprimere il voto."

  6. Questa singolare "proposta" -che risultava già bollata come illegittima dalla Cassazione e che ledeva anche, in modo eclatante, i diritti soggetti assoluti alla libertà religiosa, alla libertà di pensiero ed alla riservatezza degli odierni ricorrenti- veniva respinta con decisione, sicché essi si allontanavano dal seggio senza votare.

  7. Altri cittadini, in occasione delle medesime elezioni, sollevavano identica questione presso altri seggi italiani, pretendendo la rimozione del crocifisso ed ottenendola dall'Amministrazione soltanto in via "temporanea".

  8. Con successiva lettera datata 8.7.2004 i coniugi Protti-Tosti restituivano le tessere elettorali al Presidente della Repubblica in segno di protesta ed indirizzavano al Garante per la protezione dei dati personali un reclamo, ex art. 142 D. L.vo n. 196 del 30.6.2003, col quale lamentavano comunque l'ingiustificata lesione dei loro diritti alla riservatezza delle proprie opinioni e del proprio credo religioso, cioè di dati sensibili ex art. 4 D. L.vo citato, a cagione del comportamento illegale tenuto dalla Pubblica Amministrazione.

  9. La Segreteria della Presidenza della Repubblica restituiva loro i due certificati con lettera raccomandata a.r. del 22.7.2004 nella quale, con toni "concilianti", li si invitava a "ripensare, con animo più sereno, al significato che riveste, per ogni cittadino, il libero esercizio del diritto di voto", contemporaneamente assicurando che "questo Ufficio avrebbe portato la questione rappresentata all'attenzione del Ministero dell'Interno per l'esame e le valutazioni di competenza".

  10. In realtà nessuna successiva determinazione veniva comunicata ai ricorrenti, né dal Ministro degli Interni né dal Garante per la trattazione dei dati personali, sicché gli stessi, in vista delle prossime elezioni regionali del 3-4 aprile 2005 e dell'altrettanto prossima consultazione referendaria relativa alla legge sulla procreazione assistita, inoltravano al Prefetto di Rimini, in data 4.2.2005, nuova richiesta di rimozione dei simboli religiosi da tutti i seggi, fissando il termine di giorni 7 per un utile risposta e preannunciando, in caso di diniego, un'azione giudiziaria.

  11. Nessuna risposta perveniva ai Sigg.ri Protti e Tosti, sicché gli stessi si vedevano costretti ad adire il Tribunale di Bologna per la tutela dei loro diritti e, stante l'estrema ristrettezza dei tempi, a chiedere l'emanazione di un provvedimento cautelare urgente col quale si ingiungesse alla Prefettura di Rimini e al Ministero degli Interni di rimuovere i crocefissi da tutti i seggi elettorali in occasione delle prossime elezioni regionali e del referendum abrogativo.

  12. Il ricorso veniva così motivato:

D I R I T T O

Dal punto di vista storico va rammentato che, in seguito all'annessione del territorio dello Stato Pontificio al Regno d'Italia, i rapporti tra Stato e Chiesa degenerarono: il crocifisso fu "bandito dai pubblici uffici" per circa 70 anni e, come reazione alla pregressa dominazione pontificia, vi fu un lungo periodo di intolleranza anticlericale. Il crocifisso fece ritorno nelle aule giudiziarie solo verso la metà degli anni '20, come gesto "riconciliativo" dello Stato Fascista nei confronti della Chiesa Cattolica: questo è il chiaro senso e la chiara portata delle circolari e dei regolamenti fascisti che, poco prima della consacrazione dei Patti Lateranensi, reintrodussero il crocifisso nelle aule giudiziarie, nelle scuole e negli edifici pubblici.

Questa "normativa" di privilegio risente, ovviamente, delle connotazioni illiberali della dittatura fascista. Va ricordato, in particolare, che durante la permanenza della dittura fascista fu abolito il pluralismo delle ideologie politiche e dei partiti: esisteva un unico partito politico -per l'appunto quello fascista- che godeva, in quanto tale, del "privilegio" (illiberale) di essere esposto, da solo, nei luoghi pubblici. Anche la religione cattolica divenne -in quest'ottica illiberale e in seguito al concordato stipulato da Mussolini con la Santa Sede- la sola "religione di stato", quasi si trattasse (come il partito fascista) dell'unica vera fonte di "Verità". Anche la religione cattolica, pertanto, godette in via esclusiva -come il partito politico "fascista"- del "privilegio" di poter esporre il crocifisso nei pubblici uffici con "diritto di esclusiva".

Caduta la dittatura fascista, però, la Carta Costituzionale della novella Repubblica Italiana ha decisamente ripudiato tutte queste connotazioni illiberali della dittatura fascista e sono stati sanciti dei principi costituzionali che "navigano" in direzione diametralmente opposta. Al partito politico "unico" della dittatura fascista, ad esempio, si è sostituito il "pluralismo" democratico dei partiti politici (art. 49 Cost.) e, ovviamente, nessuno si è mai sognato, dopo il 1948, di esporre nei pubblici uffici il simbolo di un "unico" partito politico: magari quello di "maggioranza"!

Al principio della "confessionalità" dello Stato fascista, poi, si è contrapposto quello, supremo, della "laicità" dello Stato democratico repubblicano, fondato sulla eguaglianza di tutte le religioni di fronte alle legge (art. 8), sulla indipendenza ed autonomia dello Stato e della Chiesa Cattolica (art. 7), sulla eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza distinzione di religione (art. 3), sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), sul diritto dei cittadini di professare o non professare fedi religiose (art. 19) e sulle pari garanzie riconosciute a tutte le associazioni ed istituzioni religiose (art. 20).

Collocata nell'ottica di tutti questi princìpi fondamentali della Costituzione repubblicana del 1948, la normativa regolamentare sull'ostensione del crocifisso negli edifici pubblici appare dunque come un retaggio illiberale della dittatura fascista, da ritenersi non più vigente perché incompatibile con i succitati princìpi fondamentali introdotti attraverso la promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana (1.1.1948).

Chiusa questa premessa storica, è subito bene puntualizzare che NON ESISTE alcuna norma di legge e/o regolamentare che autorizzi l'Amministrazione degli Interni ad esporre nei seggi elettorali il simbolo religioso del "crocifisso", accordando così al solo "credo" dei cattolici un anacronistico ed ingiustificato privilegio: si verte dunque in ipotesi di comportamento della Pubblica Amministrazione "senza potere".

Di questa carenza di potere è perfettamente consapevole l'Amministrazione degli Interni, alla quale già nel 2000 fu richiesto dall'associazione U.A.A.R. (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) di ottemperare alla decisione della Cassazione penale n. 439/2000 e di rimuovere, pertanto, i crocifissi dai seggi in occasione delle future elezioni.

Orbene, rispondendo a quella richiesta con nota del 27.1.2001, il Segretario particolare del Ministro dell'Interno la respinse per questi due motivi:

  1. innanzitutto perchè "con la richiamata sentenza la Corte di Cassazione, nel giudicare in merito al rifiuto di un componente di un Ufficio elettorale di sezione di adempiere al proprio incarico per la presenza nell'edificio di simboli religiosi, in nessun punto, invero, fa obbligo alla pubblica amministrazione di rimuovere dai seggi elettorali simboli od immagini proprie di una unica fede religiosa, ma si è limitata a stabilire che "costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo della laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'ORGANIZZAZIONE elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali del crocifisso o di altre immagini religiose";

  2. secondariamente perché le leggi vigenti e la Costituzione non prevedono alcun divieto di esposizione del crocifisso e di oggetti sacri nei seggi elettorali (ergo: ciò che non è vietato sarebbe, per l'Amministrazione, automaticamente lecito).

Queste due argomentazioni -che sono le uniche che la P.A. adduce a supporto della "legittimità" del proprio comportamento- debbono ritenersi non solo infondate, ma anche pretestuose e in mala fede. E la mala fede è attestata dal comportamento dell'Amministrazione dell'Interno che, se da un lato afferma che "non esiste alcun suo obbligo di rimuovere i crocifissi dai seggi elettorali", dall'altro -guarda caso!!!- si offre però di rimuoverli immediatamente, appena qualche elettore solleva obiezioni o ne fa richiesta: segno evidente, questo, della perfetta consapevolezza dell'illegittimità dell'ostensione del solo simbolo dei cattolici nei seggi elettorali.

In ogni caso queste due motivazioni della P.A. debbono ritenersi infondate per i motivi che seguono.

Innanzitutto la prima "motivazione" travisa in modo grave la sentenza della Cassazione. Basta considerare, sotto questo profilo, che l'obiezione di coscienza -che è stata ritenuta sussistente dalla Cassazione per lo scrutatore che si rifiuta di adempiere ad un dovere d'ufficio- è dal punto di vista tecnico una scriminante che fa venir meno l'illiceità penale di un comportamento che costituisce, di regola, reato: questo significa che la Cassazione penale ha affermato, nella sentenza n. 439/2000, che il prof. Montagnana, rifiutandosi di adempiere un dovere d'ufficio, ha commesso sì un reato, ma che, tuttavia, egli non poteva essere punito perché aveva giustamente reagito al comportamento ILLEGITTIMO della pubblica amministrazione, la quale era invece venuta meno all'OBBLIGO di rimuovere qualsiasi simbolo religioso a garanzia e tutela del principio supremo della LAICITA' dello Stato, ovverosia della NEUTRALITA' ed IMPARZIALITA' dell'Amministrazione.

Quindi è assolutamente FALSA -o, se si preferisce, costituisce un palese travisamento della VERITA'- l'affermazione del Segretario del Ministro dell'Interno secondo cui "la Cassazione, nel giudicare in merito al rifiuto opposto da un componente dell'ufficio elettorale, in nessun punto, invero, ha fatto obbligo alla pubblica amministrazione di rimuovere dai seggi elettorali simboli od immagini proprie di una unica fede religiosa": la Cassazione ha affermato proprio l'esatto contrario, e cioè che l'Amministrazione dell'Interno è venuta meno all'OBBLIGO -scaturente dal principio supremo della laicità dello Stato- di organizzare gli uffici elettorali in modo neutrale ed imparziale e, quindi, senza la presenza di crocifissi.

Peraltro, se si dovesse trasferire la "logica" della tesi del Ministero dell'Interno ad altre "scriminanti", si dovrebbe ad esempio affermare che, quando la Cassazione assolve un imputato di "omicidio" perché ha ucciso per "legittima difesa" un rapinatore, la Cassazione, "per carità", non afferma che "è vietato rapinare il prossimo", ma soltanto che....... "si possono uccidere i rapinatori per legittima difesa"! Omettiamo qualsiasi ulteriore commento.

Assolutamente infondata, poi, è la seconda "giustificazione" addotta dall'Amministrazione, ad avviso della quale "non esiste alcuna norma che vieti esplicitamente allo Stato italiano di esporre nei seggi elettorali il simbolo dei cattolici" e che, quindi, "ciò che non è vietato deve ritenersi consentito".

Se dovesse ritenersi valido un siffatto modo di argomentare, dovrebbe allora ritenersi consentito alla P.A. introdurre nei seggi elettorali serpenti velenosi, coccodrilli famelici, belve feroci, mine antiuomo e gas venefici: anche in questi casi non esiste, in effetti, una qualche norma specifica che vieti espressamente alla Pubblica Amministrazione di introdurre nei seggi elettorali questi animali mortali o questi oggetti altrettanto mortiferi, sicché nessun elettore potrebbe lamentarsi per il "comportamento" tenuto dalla P.A.

Questa difesa ritiene -forse a buon diritto- di poter dissentire, perché questo modo di "argomentare" si profila del tutto infondato ed, anzi, foriero di conseguenze grottesche.

Non si potrebbe infatti negare che (anche) la "salute" sia un bene primario che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini, sicché la P.A., anche se non esiste alcuna norma specifica che vieti l'introduzione di siffatti animali o di siffatti oggetti nei seggi elettorali, non potrebbe "comportarsi" in modo da mettere a repentaglio la vita dei cittadini in occasione dell'esercizio del loro diritto-dovere di voto.

Alla stessa stregua, pertanto, si dovrà ritenere che il Ministero dell'Interno non possa organizzare i seggi elettorali in modo tale da ledere altri "diritti soggettivi assoluti" dei cittadini, peraltro di rango costituzionale e di consistenza ben più numerosa.

Questi, in particolare, sono i diritti soggettivi assoluti, addirittura di rango costituzionale, che vengono lesi e pregiudicati dal comportamento (senza potere) della P. A., e cioè dall'ostinata ostensione del crocifisso nei seggi elettorali.

  1. Diritto costituzionale alla libertà religiosa (art 19 Cost.).

Innanzitutto la venerazione ed il culto del crocifisso non possono essere imposti dall'Amministrazione dell'Interno a chi si reca nei seggi elettorali per esercitare liberamente (???) il diritto di voto, che è anche un dovere civico (art. 48 Cost.). I Sigg.ri Protti Emilia e Tosti Luigi, in termini estremamente chiari ed espliciti, intendono recarsi nel seggio elettorale, nei prossimi giorni del 3 e 4 aprile del 2005, solo per esercitare il loro diritto/dovere di voto in un ambiente necessariamente laico ed imparziale, e non per adorare o venerare il simbolo religioso dei cattolici. Se intendessero compiere atti di culto verso questo simbolo, essi si recherebbero in un luogo deputato a quello scòpo, e cioè in una qualche chiesa: ma questa dovrebbe comunque rimanere una loro incoercibile e libera scelta, e non un'imposizione ad opera dello Stato. L'art. 19 della Costituzione, infatti, garantisce la libertà religiosa e, come costantemente sancito dalla Corte Costituzionale, "la libertà religiosa non deve essere interpretata soltanto come libertà di professione religiosa e di culto in ogni sua forma e senza altro limite che non sia quello del buon costume, ma va anche intesa come libertà da ogni coercizione che imponga il compimento di atti di culto propri di questa o quella confessione a persone che non siano -o persino a quelle che siano- della confessione alla quale l'atto di culto appartiene" (C. Cost., n. 85/1963).

Né varrebbe obiettare che ai Sigg.ri Protti e Tosti non verrà imposto un vero e proprio atto di culto del crocifisso: se così fosse, infatti, il Ministero degli Interni dovrà innanzitutto spiegare al Giudice quale sia, allora, il "significato" o lo "scopo" della presenza del crocifisso nei seggi elettorali, che l'Amministrazione si ostina ad imporre agli elettori atei, agnostici o che si identificano in altro credo: "che cosa" ci sta a fare -ci si chiede- quel simbolo religioso nei seggi elettorali, cioè in luoghi che non sono deputati al culto e che, al contrario, dovrebbero mantenere una perfetta neutralità ed imparzialità, come espressamente sentenziato dalla Cassazione penale nella sentenza n. 439/2000?

In attesa di leggere una risposta ufficiale sul punto, val la pena di confutare, anticipatamente, quella singolarissima "giustificazione" -che non ha nulla di giuridico- che è stata addotta da alcuni per "legittimare" la presenza del crocifisso nelle scuole, nei tribunali etc.: intendiamo riferirci alla tesi di chi sostiene che il crocifisso non è un simbolo religioso ma un "vessillo nazionale", un "simbolo di civiltà" che identificherebbe tutto il popolo italiano!!

In realtà questa motivazione, che non poggia su alcun riferimento normativo, è stata ripudiata dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione che, sempre nella citata sent. n. 439/2000, l'ha addirittura bollata come una "profanazione della croce": e non a caso le offese arrecate al crocifisso vengono perseguite penalmente come "vilipendio della religione cattolica", e non come vilipendio dello Stato e delle Istituzioni.

D'altra parte, se l'Amministrazione dell'Interno sentisse realmente l'esigenza di dotare i seggi elettorali di segni identificativi dell'Unità Nazionale, essa dovrebbe ricorrere ai simboli che, per legge, sono deputati ad identificare tutti gli Italiani, e cioè alla bandiera tricolore, alla ruota dentata o all'effige del Presidente della Repubblica: e in questo caso i ricorrenti nulla avrebbero da recriminare!!!

Guarda caso, però, questo non avviene e, al contrario, i simboli laici vengono accuratamente tenuti lontani dai seggi elettorali mentre, al loro posto, viene accordata la preferenza al simbolo religioso dei cattolici: il che la dice assai lunga sulla caparbia volontà di seguitare ad accordare a questo simbolo quell'anacronistico privilegio -oggi illegale- che fu concesso dalla Dittatura Fascista.

Val la pena di soggiungere, comunque, che "la libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa, non è rispettata sol perché l'ordinamento statuale non impone a chicchessia atti di culto: la libertà, infatti, è violata anche quando sia imposto al soggetto il compimento di atti con significato religioso" (Corte Cost., sent. 117/1979, in riferimento alla formula del giuramento del testimone).

Orbene, l'esercizio del diritto/dovere del voto, sotto l'incombenza e con l'imposizione del crocifisso cattolico che troneggia nel seggio elettorale, rappresenta, ad avviso dei ricorrenti, una lesione della libertà di coscienza di chi non crede, o di chi crede in religione diversa da quella cattolica, sia perché costui è costretto, per quieto vivere, a manifestarsi "credente" di fronte a tutti i presenti, mentre credente non è, sia perché, ove non voglia soggiacere supinamente a questa assurda imposizione, egli è costretto a reagire o attraverso il rifiuto di votare o attraverso la richiesta di rimozione del crocifisso, in quest'ultimo modo manifestando a tutti i presenti, però, la propria opinione religiosa.

Palese è, dunque, la stretta analogia della presente fattispecie con quella decisa dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 117/1979, laddove la stessa ha asserito che "il testimone non credente subisce una lesione della sua libertà di coscienza da due punti di vista, distinti ma collegati: in primo luogo egli si manifesta credente di fronte al giudice ed in generale a tutti i presenti, mentre credente non è......né sarebbe sufficiente che il testimone non credente.... espunga con apposita dichiarazione il riferimento alla Divinità: questa ipotesi desta perplessità perché il suo realizzarsi potrebbe pregiudicare, in qualche modo, quel "diritto a non rivelare le proprie convinzioni", cui ebbe a far riferimento questa Corte nella sent. n. 12 del 1972 (punto 2 del considerato in diritto)".

Dunque, la situazione paventata dalla Corte Costituzionale per il testimone ateo o che crede in religione diversa dalla cattolica è la stessa che, di fatto, si realizza in occasione dell'esercizio del voto: ai cittadini non credenti, o credenti in religione diversa dalla cattolica, viene infatti imposto l'obbligo, ove non vogliano soggiacere supinamente all'imposizione coatta del crocifisso, di esternare il proprio credo dinanzi a tutti e chiedere la rimozione di quel simbolo, che verrà peraltro accordata soltanto in via temporanea, e cioè solo per il tempo strettamentene necessario per l'espressione del voto!

Questo comportamento dell'Amministrazione è palesemente lesivo del diritto costituzionale alla libertà religiosa e, comunque, deve essere ribadita la palese "incoerenza" dell'Amministrazione, sintomo di perfetta mala fede: se la stessa ritiene, infatti, di non essere gravata da alcun obbligo di rimozione del crocifisso dai seggi, non si capisce perché, poi, si affretti a rimuoverlo temporaneamente, sol che qualcuno lo richieda!!

  1. Diritto costituzionale alla libertà di pensiero (art. 21 Cost.)

Il comportamento dell'Amministrazione lede, poi, il diritto soggettivo assoluto, anch'esso di rango costituzionale, alla libertà di manifestazione del pensiero che, analogamente alla libertà di professare il proprio credo religioso, va intesa anche in senso negativo, cioè come diritto a non esser costretti a manifestare il proprio pensiero: è assai evidente, infatti, che, ove si voglia inquadrare l'ateismo nell'ambito dell'art. 21 della Costituzione (ma la Corte Costituzionale è oramai costante nel ritenere che la tutela accordata dall'art. 19 della costituzione riguardi sia le ideologie positive che quelle negative, come l'atesismo e l'agnosticismo), si dovrà comunque affermare che i ricorrenti Protti e Tosti hanno il sacrosanto diritto di non essere costretti -attraverso la richiesta di "espulsione" del crocifisso per il tempo loro necessario per l'espressione del voto- ad esternare ai membri del seggio e a tutti i presenti "come la pensano in materia di religione".

  1. Diritto alla riservatezza (artt. 4, lett. d, 20 e 22 D. L.vo 30.6.2003 n. 196

I ricorrenti ribadiscono ancora quanto già analiticamente esposto nel loro reclamo al Garante, inviato anche al Ministero dell'Interno, e cioè quanto segue.

L'art. 4 del D.L.vo 196/03 sancisce che "ai fini del presente codice si intende per:.....(lett. d) "dati sensibili", i dati personali idonei a rivelare......le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere,....le adesioni...ad organizzazioni a carattere religioso, filosofico...". L'art. 20, poi, sancisce che "il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite". L'art. 22, infine, sancisce che "i soggetti pubblici conformano il trattamento dei dati sensibili e giudiziari secondo modalità volte a prevenire violazioni dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dell'interessato".

Alla luce di questa normativa il comportamento tenuto dal Ministero dell'Interno è a dir poco allucinante, tante sono le violazioni che vengono perpetrate ai danni dei cittadini atei o che credono in altra religione, ai quali si impone di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e il proprio credo religioso al fine di ottenere la rimozione (temporanea) del simbolo religioso del crocifisso, nel quale non si identificano. Con questo comportamento la P.A. non solo calpesta i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ma viola anche tutte le citate norme sulla privacy perché, sia in modo indiretto che attraverso le verbalizzazioni delle dichiarazioni degli elettori e delle grottesche operazioni di "espulsione temporanea" del crocifisso dai seggi, vengono comunque rilevati dati personali sensibili in spregio a quelle norme e, si badi bene, in totale carenza di norme che autorizzino la P.A. a rilevare quei dati.

Questo comportamento lede anche la dignità di chi non intende subire la prevaricazione dell'imposizione del crocifisso ed è costretto, pertanto, a chiederne la grottesca espulsione temporanea dal seggio: costui, infatti, viene trattato, pubblicamente, come una sorta di "appestato", come una sorta di "anticristo" la cui presenza viene "tollerata" solo per il tempo necessario per il disbrigo del voto, terminato il quale la "sacralità" dell'ambiente elettorale viene "ripristinata" con la giusta ricollocazione del "sacro simbolo" del "crocifisso". Questo comportamento, siccome lesivo della dignità dei ricorrenti, deve ritenersi vietato dall'art. 22 della legge sulla privacy

  1. Diritto costituzionale all'eguaglianza dei cittadini, senza distinzione di religione (art. 3 Cost.); violazione dell'art. 3 della L. 13.10.1975 n. 654

La presenza del solo crocifisso nei seggi elettorali integra una violazione palese del diritto di tutti i cittadini al pari trattamento ed alla pari dignità, dal momento che con questo comportamento l'Amministrazione dell'Interno favorisce smaccatamente i cattolici, esibendo nei seggi il loro simbolo con la prerogativa dell'"esclusività", come se si trattasse dell'Unico Vero Simbolo dell'Unica Vera Religione. Questa palese discriminazione è a dir poco intollerabile, perché lo Stato non si può arrogare il diritto di parteggiare in modo così smaccato per una sola religione, violando e calpestando le altre religioni e le opinioni di chi, a buon diritto, non crede in nessuna divinità o non si pone neppure il problema. E la discriminazione si ripercuote necessariamente nello svolgimento delle operazioni elettorali, dal momento che gli elettori cattolici possono esercitare il diritto/dovere di voto in modo del tutto "tranquillo" e senza alcuna interferenza nella loro sfera morale ed ideologica, mentre i non credenti e coloro che credono in altra religione sono costretti o ad "ingoiare il rospo dell'imposizione del simbolo del crocifisso" o a reagire in modo plateale e pubblico, cioè rifiutandosi di votare o pretendendo l'espulsione temporanea del simbolo.

Va peraltro soggiunto che il "privilegio" accordato alla sola religione cattolica integra una palese discriminazione ai danni di tutte le altre confessioni, alle quali è inibito qualsiasi accesso simbolico nei seggi elettorali: si tratta di una discriminazione grave, che appare intollerabile se rapportata al precetto penale sancito dall'art. 3 della L. 13.10.75 n. 654 (ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 17.3.1966), a mente del quale viene "punito con la reclusione sino a tre anni chi.....commette atti di discriminazione per motivi razziali...o religiosi".

  1. Violazione della libertà di coscienza in relazione all'adesione al principio supremo della laicità dello Stato e dell'imparzialità della pubblica amministrazione (artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 e 97 Cost.)

L'ostensione nei seggi elettorali del solo crocifisso, infine, viola patentemente -come espressamente sentenziato dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 1.3.2000- il principio supremo della laicità dello Stato e dell'imparzialità della Pubblica Amministrazione, dal momento che la Repubblica Italiana è aconfessionale ed il cattolicesimo non è più "religione di stato" dal 1948. Sul punto la Cassazione penale, Sez. IV, 1.3.2000 n. 4273 (Montagnana), si è così espressa:

"La seconda considerazione, che fa cogliere l'immediatezza del rapporto tra motivo del rifiuto e contenuto dell'ufficio imposto, scaturisce dall'invocato principio di laicità dello Stato, che con quel contenuto ha in comune la nota dell' imparzialità dell'amministrazione (art. 97), in funzione della quale va organizzato l'ufficio elettorale, in cui lo scrutatore è inserito, in particolare per garantire sotto i molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera espressione del voto.

Il principio di laicità implica un regime di pluralismo confessionale e culturale (Corte Cost. 203/1989) e presuppone, quindi, innanzitutto l'esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche la "libertà di manifestazione dei propri convincimento morali o filosofici" è garantita in connessione con la tutela della "sfera intima della coscienza individuale" (Corte Cost., 19.12.1991 nn. 467) conformemente all'interpretazione dell'art. 19 Cost. (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma -come riconosciuto dalla Corte fin dalla sentenza 10.10.1979 n. 117, e ribadito da quella 8.10.1996 n. 334. anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo) e all'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con legge 4.8.1955 n. 848 (che tutela la libertà di manifestare la "propria religione o il proprio credo").

Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che il luogo pubblico deputato al conflitto tra i sistemi indicato sia neutrale e tale pemanga nel tempo. Infatti il concetto di laicità affermato con la sentenza 203/89 cit. non coincide con quello classico ed autorevolmente sostenuto in dottrina della irrilevanza, e quindi indifferenza, dello Stato ma, all'opposto, "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale". Si tratta in questo senso di una laicità positiva o attiva, intesa come compito dello Stato di svolgere interventi per rimuovere ostacoli ed impedimenti (art. 3 Cost.) in modo da uniformarsi (corte Cost. 195/1993) a quella distinzione tra ordini distinti che caratterizza nell'essenziale il fondamentale o supremo principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato........ La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni seggio elettorale, che è la condizione a cui l'odierno ricorrente aveva subordinato l'espletamento della funzone di scrutatore = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e di pluralismo, reciprocamente implicantisi. Invero il ritorno con l'avvento del fascismo del crocefisso....è comunemente indicato nella dottrina storica e giuridica come uno dei sintomi più evidenti del neo-confessionismo.....Diametralmente opposta, com'è evidente, la laicità come profilo della forma di stato delineata dalla carta costituzionale della Repubblica (Corte Cost. 1989/203). In particolare,l'imparzialità della funzione del pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità...dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti, sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia......... Esse (cioè le "norme secondarie che prevedevano l'esposizione dei crocifissi nei pubblici uffici": n.d.r.), quindi, non diversamente da quella legge (L. 13.11.1859 n. 3725, cd. "legge Casati": n.d.r.) trovano fondamento nel principio della religione cattolica come sola religione dello stato, contenuto nell'art. 1 dello statuto albertino: principio che proprio il punto 1 del protocollo addizionale degli accordi di revisione del 1984 considera espressamente -se pur ve ne fosse stato bisogno dopo l'entrata in vigore della Costituzione- non più in vigore, con conseguenti ricadute implicite sulla normativa secondaria derivata. Il rapporto di incompatibilità -nel detto parere sbrigativamente ritenuto insussistente (parere 27.4.1988 n. 63 del Cons. Stato: n.d.r.)- con i sopravvenuti accordi del 1984, rilevante per l'abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, si pone, quindi, direttamente non con quelle norme regolamentari bensì col loro fondamento legislativo: l'art. 1 dello statuto albertino espressamente dichiarato non più in vigore "di comune intesa" con la Santa Sede.......Ma anche nel nostro ordinamento la giustificazione indicata urta contro il chiaro divieto posto in questa materia dall'art. 3 della Cost., come ha recentemente ricordato Corte Cost. 14.11.1997 n. 329, laddove ha sottolineato -con un'affermazione tale da assurgere la portata di un orientamento generale- al di là della specifica questione dell'art. 404 ivi scrutinata- come il "richiamo alla cd. coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della ragionevolezza, è viceversa vietato laddove la Costituzione, nell'art. 3, 1° comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione". E, nella specie, si differenzia appunto in base alla religione nel momento in cui si dispone l'esposizione del SOLO CROCIFISSO..... Va pure aggiunto che, peraltro, quelle norme (cioè le norme regolamentari anteriori al Concordato, che contemplavano l'ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche: n.d.r.), in quanto non prevedono una rimozione del simbolo religioso ogni volta che l'aula venga messa a disposizione dell'amministrazione dell'interno per lo svolgimento delle operazioni elettorali, si pongono -non diversamente da quelle interne- in contrasto con lo spirito garantistico ed imparziale della superiore legislazione elettorale: la quale si preoccupa di impedire forme simboliche di comunicazione iconografica, non ammettendo per esempio "la presentazione di contrassegni riproducenti immagini o soggetti religiosi" (art. 14 u. co. d.p.r. 361/57 e succ. mod.). Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal ricorrente non si è verificata e che egli ne ha tratto motivo, al momento dell'assunzione dell'ufficio, per non ritenere garantito il principio di laicità dello Stato e quindi -con un rapporto causa ed effetto- di imparzialità della propria funzione di scrutatore, inducendolo ad un'azione di rifiuto adeguata a tali principi costituzionali........Si rileva dalla sentenza impugnata che il motivo addotto dal ricorrente riguarda, assieme al rispetto della laicità, la "libertà religiosa di coscienza", cui egli immediatamente dopo la comunicazione della nomina aveva scritto....di "non intendere rinunciare". Fin dall'inizio, quindi, era stato denunciato il rischio -non circoscritto allo specifico seggio di designazione ma riferito all'intera organizzazione elettorale in relazione alla dotazione obbligatoria di arredi dei locali, comprendenti il crocifisso- di un grave turbamento della coscienza a causa del conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il dovere morale di osservare un dettame della propria coscienza sulla necessaria garanzia di laicità e di imparzialità di quell'ufficio (secondo una dinamica analoga a quella analizzata per esempio da Corte Cost. 149/95).

Ora la libertà di coscienza, prospettata per, dir così, a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitatile solo se riguardi il seggio elettorale di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l’intera amministrazione (sarebbe come se l’”obiezione di coscienza” al servizio militare per opposizione all’uso delle armi ex art. 1 L. 8.7.1998 n. 230 non fosse esercitatile da parte del cittadino destinato a compiti meramente amministrativi). Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costituito non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione. La libertà di coscienza, infatti, è un "bene costituzionalmente rilevante" (sent. 18.7.1989 n. 409) e quindi "dev'essere protetta in misura proporzionale alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana" (sent. 5.5.1995 n. 149, che richiama la n. 467 del 19.12.1991), al punto tale che la stessa libertà religiosa ne diventa una particolare declinazione: "libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa" (sent. 334/96). Ne consegue che questa libertà, nel "pluralismo dei valori di coscienza susseguente alla garanzia costituzionale delle libertà fondamentali della persona", va tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante, come si ricava dalle declaratorie di illegittimità costituzionale delle formule del giuramento, operate dall'alta Corte alla luce di quel parametro.

Costituisce, pertanto, giustificato motivo di RIFIUTO dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio elettorale la manifestazione della LIBERTA' di COSCIENZA, il cui esercizio determini un conflitto tra la PERSONALE ADESIONE al PRINCIPIO SUPREMO di LAICITA' dello STATO e l'ADEMPIMENTO dell'INCARICO A CAUSA dell'ORGANIZZAZIONE ELETTORALE in relazione alla PRESENZA, nella DOTAZIONE OBBLIGATORIA di ARREDI dei LOCALI destinati a seggi elettorali, del CROCIFISSO o di altre immagini religiose".

Orbene, alla luce di questa pronuncia specifica della Cassazione -che è stata deliberatamente travisata dal Ministro dell'Interno nella nota 27.1.2001 allo scòpo di seguitare ad accordare ai cattolici quell'anacronistico privilegio che fu accordato, a suo tempo, dalla Dittatura Fascista- non si può disconoscere la sussistenza, in capo agli odierni ricorrenti, di quello stesso diritto alla "libertà di coscienza" che fu riconosciuto dalla Cassazione al componente del seggio elettorale prof. Montagnana: entrambe le posizioni soggettive appaiono infatti ispirate agli stessi identici valori costituzionali dell'adesione al principio supremo della laicità dello Stato e dell'imparzialità dell'Amministrazione, del diritto alla libertà religiosa e, infine, del diritto all'eguaglianza ed alla pari dignità di tutti i cittadini e di tutte le ideologie religiose.

V'è da soggiungere che la lesione del principio supremo della laicità dello Stato a causa dell'ingiustificata ostensione dei crocefissi nei seggi elettorali, attuata dall'Amministrazione in totale carenza di norme di legge che le consentano un siffatto comportamento, appare ancora più incisiva se rapportata ai quesiti referendari che riguarderanno le norme sulla procreazione assistita: è ben noto, infatti, che l'approvazione parlamentare di queste norme è stata fortemente condizionata dalle peculiari "credenze religiose" cattoliche, tant'è che la Chiesa cattolica, il Vaticano, i vescovi e i partiti politici di ispirazione cattolica hanno già fatto quadrato per impedirne l'abrogazione.

L'ostensione del crocifisso, dunque, assumerà in questo contesto una valenza sublimale ancora più spiccata di quella che è stata giustamente evidenziata dalla Cassazione nella sent. 439/2000.

Si rappresenta, in ogni caso, che, ove la "libertà di coscienza" dei ricorrenti dovesse essere disconosciuta, gli stessi si rifiuteranno di votare.

Si sottolinea ancora che la tutela effettiva di questa "libertà di coscienza" e quella di tutti i correlati diritti soggettivi assoluti sopra elencati potranno essere salvaguardate -come sentenziato dalla Cassazione- solo attraverso la rimozione del crocifisso da TUTTI i seggi elettorali, e non dal solo seggio dove i ricorrenti andranno a votare: pertanto, se l'Amministrazione non si adeguerà a questo precetto, i ricorrenti si rifiuteranno di votare.

Così motiva la Cassazione sul punto: “Ora la libertà di coscienza, prospettata per, dir così, a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitatile solo se riguardi il seggio elettorale di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l’intera amministrazione (sarebbe come se l’”obiezione di coscienza” al servizio militare per opposizione all’uso delle armi ex art. 1 L. 8.7.1998 n. 230 non fosse esercitatile da parte del cittadino destinato a compiti meramente amministrativi). Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costituito non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”.

Sulla base di tali motivazioni si chiedeva, sussistendo il fumus boni juris, nonché il pericolo che durante il tempo necessario per ottenere il riconoscimento dei propri diritti ricorrenti subissero il pregiudizio al loro diritto di voto e ai loro diritti soggettivi per le oramai prossime elezioni regionali del 3-4 aprile 2005 e per il referendum sulla procreazione assistita, si chiedeva che il Tribunale di Bologna volesse ordinare al Prefetto di Rimini e al Ministro dell'Interno di rimuovere da tutti i seggi elettorali italiani o, in subordine, da tutti i seggi elettorali dell'Emilia Romagna, il simbolo religioso del crocifisso.

Con successive deduzioni, depositate all'udienza dell'8.3.2005, i ricorrenti svolgevano alcune considerazioni in merito alla giurisdizione dell'A.G.O. ed al merito dell'azione cautelare.

In particolare i ricorrenti puntualizzavano che la presenza del crocifisso nei seggi elettorali era solo "occasionale", cioè legata al fatto che l'Amministrazione dell'Interno perlopiù utilizzava, per lo svolgimento delle operazioni elettorali, le aule scolastiche, nelle quali già vi era la presenza del crocifisso, imposta da altre norme regolamentari (che peraltro la stessa Cassazione, nella sent. 439/00, aveva ritenuto tacitamente abrogate, ex art. 15 delle preleggi, per incompatiblità con svariate norme della Carta Costituzionale).

Questa presenza "occasionale" del crocifisso, tuttavia, non era un buon motivo perché la P.A. si esimesse dal rimuoverlo, temporaneamente, cioè per tutto il tempo necessario per l'esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini, così come ritenuto OBBLIGATORIO dalla Cassazione penale nella citata sentenza n. 439/00. Quel che i ricorrenti chiedevano, in altri termini, era che la P.A. non si limitasse a rimuovere il crocifisso solo su richiesta degli elettori e per il tempo strettamente necessario per l'espletamento della loro operazione di voto -comportamento, questo, già spontaneamente posto in atto dalla P.A.- bensì per tutto il tempo delle operazioni elettorali, evitando così, tra l'altro, l'umiliazione delle "richieste" di rimozioni e la conseguente lesione del diritto di riservatezza degli elettori "dissenzienti".

Solo questa rimozione protratta per l'intera durata delle operazioni elettoirali avrebbe potuto garantire che non venissero pregiudicati tutti i diritti soggettivi assoluti di cui i ricorrenti reclamavano, concretamente, la tutela.

Per chiarire ancor più il concetto, si esponeva che l'Amministrazione dell'Interno, in ipotesi, avrebbe potuto utilizzare, come seggi elettorali, i locali normalmente adibiti a "depositi munizioni" o a "rettilari" o a depositi di sostanze radioattive. Ebbene, in siffatti casi nessuno avrebbe potuto porre in dubbio che la P.A. avrebbe avuto l'obbligo di rimuovere tutte le "mine", tutti gli esplosivi, tutte le sostanze radioattive e tutti i serpenti velenosi presenti in quei locali, al fine di preservare e garantire il diritto soggettivo assoluto alla salute ed all'integrità fisica dei cittadini elettori, secondo il paradigma del principio del "neminem laedere".

Alla stessa stregua, pertanto, si sarebbe dovuto affermare che sussisteva la stessa obbligazione (del neminem laedere) da parte della P.A. nei confronti di tutti i diritti soggettivi assoluti dei ricorrenti: diritti che, altrimenti, sarebbero stati lesi dalla presenza di quel simbolo religioso.

Si rimarcava, ancora, che di questa potenzialità lesiva era peraltro ben consapevole la P.A., dal momento che la stessa era solita manifestare la propria disponibilità a rimuovere immediatamente i crocifissi dai seggi, appena qualche elettore ne avesse fatto richiesta.

Palese, dunque, era la giurisdizione dell'A.G.O. né sussistevano limitazioni di sorta in ordine alla pronuncia richiesta in via cautelare, che implicava la condanna dell'Amministrazione ad un facere (Cass., 25.2.1999 n. 1636: "Il ricorso al giudice ordinario per ottenere, anche con azione di nunciazione o con altra istanza rivolta a conseguire provvedimenti cautelari ed urgenti, una pronuncia che imponga alla P.A. un determinato comportamento, attivo o passivo, è consentito quando si sia in presenza non di atti amministrativi, ma di mera attività materiale, cioè di una condotta della p.a. soggetta ai criteri generali di diligenza e della prudenza, nonché della buona tecnica a salvaguardia dei diritti dei privati").

Infine, per quanto riguardava il "merito" della pretesa azionata dai ricorrenti, si evidenziava, nuovamente, che la stessa risultava esplicitamente confortata non solo dalla sentenza della Cassazione penale n. 439/2000, già menzionata, ma anche dall'ordinanza presa dal Giudice monocratico del Tribunale dell'Aquila dott. Montanaro e dall'ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto n. 56/2004 (che si producevano).

Si rappresentava, in particolare, che con quest'ultima ordinanza il TAR del Veneto aveva ravvisato l'incompatibilità, con numerose norme costituzionali, di tutta la normativa regolamentare fascista relativa all'esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche ed aveva pertanto ritenuto di investire la Corte del relativo giudizio di "legittimità costituzionale". La circostanza che la Consulta avesse poi dichiarato inammissibile tale questione, in quanto avente per oggetto regolamenti amministrativi e non atti aventi forza di legge, non intaccava minimamente il giudizio di legittimità di tali norme regolamentari, che era stato già espresso in senso nettamente negativo dal TAR del Veneto.

Pertanto, la prognosi favorevole di tale ricorso giurisdizionale (la cui discussione era stata fissata per il prossimo 17 marzo) doveva ritenere scontata, salvo che il TAR del Veneto non avesse voluto, grottescamente, smentire sé stesso e tutti i princìpi affermati dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale, che erano stati richiamati nella precedente propria ordinanza n. 56/2004!!

Si ribadiva che non esisteva alcuna norma regolamentare che autorizzasse l'Amministrazione dell'Interno a ledere, attraverso la "mancata rimozione dei crocifissi", tutti i diritti soggettivi assoluti azionati dai ricorrenti e che, in ogni caso, eventuali norme amministrative avrebbero dovuto essere disapplicate dal Giudice Ordinario ex art. 5, all. E, l. n. 2248 del 1865.

Per ciò che concerneva la valenza squisitamente religiosa del crocifisso -che qualcuno aveva voluto mistificare per far credere che la sua presenza nei luoghi pubblici non offendesse i diritti di coscienza religiosa e di eguaglianza delle fedi religiose- si richiamava il "testo", assai significativo, della circolare del min. della pubblica istruzione del 26.5.1926, a mente della quale l'imposizione della presenza nelle aule scolastiche del "crocifisso" era stata dettata dallo scòpo di "fare in modo che il simbolo della nostra religione, sacro alla fede e al sentimento nazionale, ammonisse e ispirasse la gioventù studiosa".

I ricorrenti Protti e Tosti rimarcavano che essi non consideravano affatto il crocifisso come "il simbolo della loro religione" e non lo ritenevano affatto "sacro alla loro fede", né "sacro al loro sentimento nazionale": essi, infine, "non intendevano essere affatto ammoniti" né "ispirati" dai crocifissi, tantomeno allorché si recano nei seggi elettorali solo per esercitare il diritto di voto o fare una scelta referendaria, e non per seguire, in qualità di "studenti", i corsi di studio obbligatori.

I ricorrenti rappresentavano al Giudice che essi non avevano mai esposto nella loro casa, in segno di fede e venerazione, il simbolo del "crocifisso" e, pertanto, restavano in attesa di conoscere quali fossero le sostanziose motivazioni per le quali essi avrebbero dovuto, "a buon diritto", subire, in occasione dell'espletamento del diritto-dovere di voto, la prevaricazione ideologica e morale dell'imposizione di un simbolo religioso nel quale non si identificano e dal quale, anzi, si dissociavano apertamente per motivi legati alla fosca e funesta storia della Chiesa Cattolica.

A confutazione della tesi di chi sosteneva che "il privilegio dell'esposizione esclusiva del crocifisso era giustificato dal fatto che la maggioranza degli italiani fosse cattolica" si richiamava -al di là della confutazione di tale dato statistico- quanto sentenziato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 925/1988, 440/1995 e 329/1997, laddove si era affermato l'esatto contrario, e cioè che "il superamento della contrapposizione tra religione cattolica, "sola religione dello Stato", e gli altri culti "ammessi", sancito dal punto 1 del protocollo del 1984, rende oramai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basi soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose. L'abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone oramai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza".

Sulla base di tutte queste corpose motivazioni i ricorrenti restavano in attesa di verificare se, in Italia, esisteva realmente l' "eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione" (art. 3) e se esisteva realmente l' "eguaglianza e la pari dignità di tutte le confessioni religiose" (art. 8), oppure se la religione cattolica era, per un qualche recondito motivo, "più uguale" di tutte le altre.

Restavano in attesa, i ricorrenti, di sapere per quale motivo i loro simboli ideologici, come peraltro i simboli ideologici di tutte le altre religioni, fossero stati accuratamente tenuti fuori dai luoghi pubblici italiani, cioè dai luoghi che, essendo "pubblici", dovevano costituire un "condominio di tutti gli italiani" e, quindi, appartenere "anche" ai Sigg.ri Protti e Tosti.

Restavano in attesa, i ricorrenti, di sapere per quale motivo ad "un solo condòmino", cioè alla Chiesa cattolica, fosse ancora concesso di utilizzare le "case condominiali", cioè gli "edifici pubblici italiani", mentre a tutti gli "altri condòmini" (atei, agnostici o credenti in altre religioni) fosse negato di fare un "pari uso" di esse.

Sulla base di tutte queste argomentazioni si puntualizzavano le richieste definitive con queste conclusioni: "Piaccia al Tribunale di Bologna, in persona del Giudice Monocratico designato, ordinare al Prefetto di Rimini e al Ministro dell'Interno pro-tempore, ex lege rappresentati dall'Avvocatura distrettuale di Bologna, di rimuovere da tutti i seggi elettorali italiani o, in subordine, da tutti i seggi elettorali dell'Emilia Romagna o, in ulteriore ed estremo subordine, dalla sezione elettorale n. 6 (Scuola Media Panzini, Via Vezia 17, Rimini), dove i ricorrenti sono chiamati a votare, il simbolo religioso del crocifisso per tutta la durata delle operazioni elettorali."

L'Avvocatura di Stato si è costituita in giudizio con una garbata comparsa con la quale, evitando di arrampicarsi sugli specchi per sostenere l'insostenibile, si è limitata ad eccepire:

  1. che la domanda cautelare era inammissibile, in quanto i due ricorrenti miravano, in realtà, ad esercitare un' "azione popolare";

  2. che in realtà nessun diritto dei ricorrenti era mai stato leso, posto che gli stessi Protti-Tosti avevano "riconosciuto, con riferimento alle ultime elezioni, che il Presidente del seggio aveva senz'altro acconsentito a rimuovere il crocifisso per il tempo necessario ad esprimere il voto";

  3. che l'obbligo di dare esecuzione alla sentenza della Cass. penale n. 4273/2000 si era esaurito con la "cancellazione della pena" inflitta al prof. Marcello Montagnana;

  4. che non poteva essere invocato il diritto alla riservatezza, giacché l'amministrazione non aveva trattato alcun dato sensibile;

  5. che il periculum in mora non era attuale, dal momento che non era certo che nel seggio in cui i ricorrenti avrebbero votato vi sarebbe stato il crocifisso: non si poteva infatti escludere l'utilizzazione di vani adibiti a palestre o a zone ricreative, ove non sono di regola affissi crocifissi.

Sciogliendo la riserva aperta l'8.3.2005, il Giudice designato ha respinto il ricorso cautelare, condannando i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali liquidate, d'ufficio e in assenza di richiesta dell'Avvocatura, in €. 1.000.

Prima di passare all'esposizione dei motivi del reclamo si impongono due

P R E M E S S E

  1. La prima premessa riguarda la funzione "nomofilattica" esercitata dalla Cassazione (ed anche dalla Corte Costituzionale) nell'ambito della "giurisdizione", per effetto della quale gli "insegnamenti" impartiti dai Giudici Supremi possono essere sì disattesi dai giudici di merito, ma solo se questi ultimi diano adeguata contezza delle motivazioni che li hanno indotti a disapplicare le sentenze della Cassazione.

  2. La seconda premessa riguarda il clima di pesante intimidazione e di pesante condizionamento che si è creato, in Italia, in seguito al clamore pubblico ed alle violente reazioni, anche intimidatorie, che hanno bersagliato i "giudici" che hanno dovuto trattare questioni analoghe a quella intentata dai Sig.ri Protti-Tosti. Vale rammentare le durissime "critiche" da parte di Organi Istituzionali dello Stato Italiano, tra i quali addirittura il Capo dello Stato, nonché le minacce di morte e la rappresaglia "ispettiva" disposta dal Ministro di Giustizia a carico del giudice del tribunale de L'Aquila, dott. Mario Montanaro, "reo" di aver accolto (peraltro facendo applicazione pedissequa degli insegnamenti impartiti dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale) la domanda cautelare di rimozione dei crocefissi dalla scuola elementare di Ofena, presentata da Adel Smith. Vale rammentare le due ispezioni ministeriali disposte a carico dell'odierno ricorrente Tosti Luigi, magistrato in Camerino, reo di aver chiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie o, in alternativa, di esporre i propri simboli religiosi. Vale rammentare l'annullamento -per motivi di "giurisdizione"- dell'ordinanza del giudice Montanaro. Vale rammentare l'ordinanza del TAR del Veneto n. 56/2004, con la quale la questione dei crocifissi nelle scuole è stata rimessa alla Corte Costituzionale con una motivazione che è stata bollata, da alcuni commentatori giuridici, come "pilatesca" (si produce il commento apparso sulla rivista Diritto & Giustizia). Vale rammentare la successiva decisione della Corte Costituzionale che, pur essendosi limitata a restituire la "patata bollente" al TAR del Veneto, perché la questione sollevata era "inammissibe", è stata poi contrabbandata dal servizio nazionale di informazione pubblica, nonché da organi istituzionali dello Stato, come una sentenza di "reiezione" della richiesta di rimozione dei crocifissi dalle scuole. Val la pena di ricordare la recentissima decisione del TAR del Veneto del 22.3.05 che, dopo aver precedentemente sollevato, con ordinanza n. 56/04, la questione di illegittimità costituzionale dell'ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche, ritenendola in palese contrasto con ben sei norme della Costituzione, si è poi completamente "rimangiato" tutte le sue precedenti motivazioni (dopo che il precedente collegio giudicante è stato "rinnovato" per 2/3), arrivando ad affermare -pur di "giustificare" l'ostensione del crocifisso cattolico nelle scuole- che "la laicità dello stato moderno è stata faticosamente conquistata anche grazie ai valori fondanti del cristianesimo"!!!! Affermazione, quest'ultima, che, se solamente rapportata al "modello" di "laicità" che traspare dalla conformazione giuridica della Chiesa Cattolica e dallo Stato del Vaticano, potrebbe legittimamente indurci ad affermare che, nell'ambito dei movimenti culturali che hanno lottato contro il razzismo e l'antisemitismo, il nazi-fascismo deve ritenersi, per titoli di benemerenza conquistati sul "lager", il leader indiscusso. Val la pena di evidenziare, infine, la circostanza che questa recentissima sentenza del TAR del Veneto non è stata propalata da nessuna rete televisiva e da nessun quotidiano e che non è stata fatto oggetto del benché minimo "trionfalismo" da parte dei cattolici o di Organi istituzionali dello Stato: segni evidenti, questi, dell'imbarazzo e della vergogna che scaturiscono da questi incredibili voltafaccia decisionali, fondati su disquisizioni metagiuridiche, che oltretutto mistificano la verità storica.

Comunque, ciò che si vuole argomentare dall'esposizione di questi "fatti" è che è oramai evidente che si è venuto a creare -a carico dei giudici e in relazione a cause "scottanti" che coinvolgono il credo "cattolico"- un pesantissimo "clima", anche intimidatorio, che ne ha condizionato e ne condiziona la serenità di giudizio. Quello che allora i ricorrenti chiedono -avendone essi diritto come qualsiasi altro cittadino- è che il giudizio nei confronti della loro pretesa sia reso da giudici imparziali, sereni, non condizionati e non intimiditi.

Per l'ipotesi, pertanto, che qualcuno dei giudici si senta non sereno o condizionato -magari per motivi legati a propri convincimenti religiosi o di contrarietà nei confronti delle iniziative prese dal "giudice" Tosti- si auspica il corretto e doveroso uso dell'istituto dell'astensione.

MOTIVI DEL RECLAMO

Il Giudice monocratico ha dato sostanziale dimostrazione di non aver affatto capito in che cosa consista il "principio supremo della laicità dello Stato" e quali siano le imprescindibili interferenze ed implicazioni di questo principio "supremo" con i diritti soggettivi assoluti di eguaglianza senza distinzione religiosa, che implica anche quello, "negativo", di non essere "discriminati" a cagione del proprio credo (artt. 3 ed 8 della Cost. ed art. 3 L. 654/1975), di libertà religiosa (art. 19 Cost.) e di riservatezza: pertanto ha sbrigativamente liquidato tutte le censure mosse all'ingiustificata ostensione del solo "crocifisso" nei seggi elettorali, affermando che "l'ostensione di questo simbolo non costituisce un ostacolo al pieno e libero esercizio del diritto di voto o dello loro libertà religiosa".

Per il Giudice monocratico, infatti, "la presenza -peraltro eventuale e non certa- del crocifisso nelle aule scolastiche destinate a sedi di seggio costituisce unicamente un arredo, del tutto marginale sia per l'ingombro che per la visibilità, non rappresenta di per sé imposizione di un credo religioso o di una forma di venerazione, né obbliga alcuno a tenere una determinata condotta di adorazione o a dichiarare la propria posizione in materia religiosa.

La palese infondatezza della motivazione di rigetto -che si fonda sulla "innocuità" della "presenza fisica" dell' "arredo-crocifisso" nei seggi (e, quindi, nei locali pubblici in genere)- la si ricava da questa prima, immediata, considerazione logica: come si spiega che la Cassazione penale ha mandato assolto il prof. Marcello Montagnana, ritenendo addirittura giustificato il suo "rifiuto" di espletare le funzioni di scrutatore a cagione dell'ostensione dell' "arredo-crocifisso" nei seggi elettorali, peraltro assente nel seggio ove doveva operare l'imputato? Come mai, in altre parole, la Cassazione non ha condannato l'imputato, se è "vero" -come apoditticamente sostiene il Giudice monocratico- che l' "arredo-crocifisso" nei seggi è "irrilevante", "inoffensivo" e "neutro"?

Non è forse vero che anche in "quel" caso "l'eventuale presenza del "crocifisso" nel seggio ove operava il Montagnana non rappresentava un ostacolo o un impedimento all'esercizio delle sue mansioni di scrutatore, trattandosi di un arredo, del tutto marginale sia per l'ingombro che per la visibilità, che non gli imponeva un credo religioso né lo obbligava a tenere una determinata condotta di adorazione o a dichiarare la propria posizione in materia religiosa e non gli impediva, in estrema sintesi, di entrare nel seggio e sbrigare tutte le incombenze elettorali"?

La circostanza che la Corte di Cassazione, con la diffusissima motivazione che è stata (vanamente) riportata in ricorso e prodotta in atti, è pervenuta ad una decisione diametralmente opposta a quella cui, apoditticamente, è pervenuto oggi il Giudice monocratico, dimostra che la Corte suprema ha ritenuto rilevanti tutti i motivi addotti dal prof. Marcello Montagnana, e cioè la violazione, ad opera dell'ostensione del solo crocifisso ad opera della P.A., del suo diritto all'eguaglianza, senza distinzione di religione, del suo diritto alla libertà religiosa e della sua libertà di coscienza, ispirata al principio supremo della laicità dello Stato. La Corte, poi, ha anche ritenuto che fossero state abrogate, per incompatibilità con le norme della Costituzione (ex art. 15 preleggi) tutte le norme regolamentari e tutte le circolari fasciste che sancivano l'ostensione del simbolo dell'unica "religione di Stato" e, comunque, la loro illegittimità per contrasto con norme costituzionali.

E allora? Quali sarebbero, di grazia, i reconditi "motivi" in base ai quali il Giudice monocratico ha ritenuto di doversi discostare da tutte le statuizioni e da tutti gli "insegnamenti" impartiti dalla Cassazione e da tutte le altre sentenze della Corte Costituzionale, citate in quella sentenza? Ma non devono -i giudici di merito- seguire gli insegnamenti della Corte di legittimità o, in caso di dissenso, motivare "perché" non vi si adeguano?

L'ordinanza omette qualsiasi motivazione, sicché si resta in attesa che il Collegio chiarisca perché mai i principi di diritto affermati per la soluzione del "caso" Montagnana non debbano essere applicati al "caso" dei cittadini elettori Protti e Tosti, che lamentano anch'essi, a causa dell'illegittima esposizione del crocifisso, la lesione degli identici diritti di eguaglianza senza distinzione di religione (e di non essere discriminati a causa del credo religioso), di riservatezza, di libertà e pari dignità religiosa e, infine, di libertà di coscienza legata all'affermazione del principio supremo di laicità dello Stato.

Nel frattempo si evidenzia che dalla motivazione dell'ordinanza -e in particolare dal brano successivo (pag. 5), ove si fa esplicito riferimento alla circostanza che "si deve escludere che il mancato esercizio del voto sia dipeso da un fatto, inteso quale evento, situazione o condotta, inevitabile ed insuperabile, perché non dipendente dalla volontà dei ricorrenti e comunque non vincibile da parte loro"- si intuisce chiaramente che per il Giudice monocratico l'unica cosa che realmente conta è che quel "pezzo di legno", peraltro poco ingombrante e poco visibile, non impedisce fisicamente -ai non credenti o a chi crede in una religione diversa da quella cattolica- di varcare la soglia del seggio, di prendere la matita, di esprimere il voto e di allontanarsi dal seggio.

Questa sconcertante valutazione "materialistica" della vicenda dimostra che il Giudice non ha minimamente capito in che cosa consista il principio di "laicità" dello Stato e quali siano, poi, le imprescindibili implicazioni negative che scaturiscono dalla violazione, da parte dello Stato, di tale principio supremo.

Col rischio di essere pedanti, ribadiamo che il concetto di laicità, come affermato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, consiste nella neutralità, nell'equidistanza e nell'imparzialità dello Stato nei confronti delle religioni: questo implica che le religioni, in uno Stato laico, debbano essere necessariamente relegate nell'ambito della sfera "privata" dei cittadini e, dunque, rimanere al di fuori della sfera "pubblica" dei poteri e delle istituzioni statuali. Il concetto contrapposto a quello della laicità è, dunque, quello della "confessionalità" dello Stato: qui lo Stato, ripudiando deliberatamente la posizione di neutralità ed equidistanza nei confronti delle religioni, attribuisce invece rilevanza pubblica ad una sola di esse.

La conseguenza altrettanto necessaria di quest'ultima "scelta costituzionale" è che la "religione di stato" viene inserita (anche) nel settore pubblico e, nell'ambito di questo settore, gode (e può legittimamente godere) di veri e propri "privilegi" rispetto alle "altre" religioni e, quindi, rispetto agli "altri cittadini" che credono nelle "altre religioni.

Orbene, dal momento che lo Stato Italiano non è uno stato confessionale (su questo, "grazie a Dio", non sembrano esservi dubbi) ma, al contrario, uno Stato laico, è giocoforza dedurne che lo Stato Italiano -e la pubblica amministrazione in genere- non può attribuire la benché minima rilevanza pubblica ad una o più religioni, accordandole "privilegi" che creano, necessariamente e conseguenzialmente, "discriminazioni" a discapito delle "altre" religioni escluse e violano, altrettanto necessariamente e conseguenzialmente, i diritti di "eguaglianza" dei cittadini esclusi e delle religioni escluse, nonché i diritti di "libertà religiosa" dei cittadini che credono in altre religioni o che non credono in nessuna religione.

Quel che dunque rileva, ai fini della prospettazione della lesione dei diritti soggettivi, di rango costituzionali, dei cittadini "discriminati", è la circostanza che questi "privilegi religiosi" vengano indebitamente concessi da soggetti pubblici che, in momenti pubblici, agiscono istituzionalmente per finalità pubbliche.

I coniugi Protti-Tosti -per essere ancor più chiari e pedanti- non si lamentano del fatto che gli elettori italiani possano entrare nei seggi elettorali con crocifissi o altri simboli religiosi appesi al collo: questo, al contrario, è garantito dall'art. 19 della Costituzione, che accorda a tutti cittadini il diritto di professare la propria fede liberamente e pubblicamente.

Essi, al contrario, si lamentano del fatto che sia lo Stato Italiano -evidentemente avvezzo a "predicare bene, ma razzolare male"- a "professare" pubblicamente, in un momento pubblico e nell'esercizio di pubbliche funzioni, una "sola" religione, propagandando ed esponendo alla venerazione di tutti i cittadini, anche non credenti o credenti in altre religioni, il simbolo di un' unica religione, in spregio patente del principio supremo della laicità e, conseguentemente, con atti di patente discriminazione religiosa e di patenti violazioni dei diritti di eguaglianza, di libertà di religione e di riservatezza.

Se si ritenesse lecito un siffatto comportamento -così come frettolosamente ritenuto dal Giudice nell'impugnata ordinanza- si perverrebbe a conseguenze a dir poco grottesche.

Si dovrebbe infatti ritenere altrettanto "lecito" il rilascio, da parte della Pubblica Amministrazione, di carte d'identità o di passaporti con l'impressione e la stampa delle immagini del Cristo crocifisso e di Padre Pio da Pietrelcina al posto dello stemma della Repubblica Italiana, oppure l'imposizione dell'obbligo di esporre i crocifissi e le immagini di Padre Pio all'interno delle abitazioni private dei cittadini italiani: anche in questi casi, invero, si potrebbe affermare, utilizzando pedissequamente le parole usate dal Giudice, che "la stampa del simbolo del crocifisso o dell'immagine di Padre Pio sulle carte di identità e sui passaporti, nonché la presenza all'interno delle abitazioni private di questi "oggetti di arredamento", del tutto marginali per ingombro e per visibilità, non rappresentano di per sé imposizione di un credo religioso o di una forma di venerazione, né obbligano a tenere una determinata condotta di adorazione o a dichiarare la propria posizione in materia religiosa". Essi, poi, "non condizionano, subordinano o influenzano la formazione di un'opinione politica o l'espressione del voto e non valgono ad identificare i cristiani o ad introdurre una discriminazone tra questi e tutti gli altri". Dal momento poi che (parole testuali del Giudice monocratico) "non è verosimile che un "non-simbolo", qual'è il crocifisso per i non credenti ed i non cristiani, possa per essi avere una qualche influenza negativa o costituire una qualche remora psicologica riguardo al convincimento religioso e men che meno provocare un turbamento dell'animo tale da privare i cittadini delle loro capacità morali, critiche e di giudizio", sarebbe giocoforza dedurre che nessuno potrebbe "lamentarsi" della pubblicità impressa su tali documenti o dell'imposizione dell'obbligo di esporre, in casa propria, i simboli religiosi altrui.

Queste grottesche conseguenze "parlano" più di qualsiasi ulteriore nostro commento e ci esonerano da ulteriori approfondimenti, che potrebbero degenerare nel turpiloquio.

Ci limitiano pertanto a riportare alcuni passi dell'ordinanza del Dott. Montanaro, che ha espresso un orientamento diametralmente opposto all'ordinanza reclamata, peraltro seguendo pedissequamente la sentenza della Cassazione penale e le plurime sentenze delle Corte Costituzionale:

"In molte norme della Costituzione (art. 3 e 8, 1° comma), ed in verità anche nella comune valutazione dei rapporti sociali, il principio di libertà si pone in diretta connessione con quello di eguaglianza. Ed anche a proposito della libertà di religione è necessario considerare la relazione che sussiste tra i principi di libertà e di eguaglianza. E' quanto ha ritenuto la IV sez. pen. della suprema Corte di Cassazione con la sentenza 1.3.2000, Montagnana. Richiamandosi anche ad esperienze di altri paesi, il Supremo collegio ha ritenuto che la rimozione del simbolo del crocifisso da ogni seggio elettorale si muovesse nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, repiprocamente implicantisi. Vero è che tale decisione fa perno sul concetto di neutralità del pubblico ufficiale, ma essa è solo apparentemente lontana dalla questione all'attenzione di questo giudice...poiché a ben vedere, proprio in considerazione del fatto che la scuola pubblica rientra....nel novero dei servizi pubblici, anche l'oggetto del ricorso in esame riguarda la laicità delle istituzioni.

Le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con la libertà di religione l'esposizione del crocifisso nelle scuole (e negli uffici pubblici), così come ogni altra forma di confessionalismo statale, sono divenute oramai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell'Italia e, soprattutto, ai principi costituzionali che impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai contenuti ideologici.

Il crocifisso assume, nella sua sinteticità evocativa, una particolarmente complessa polivalenza significante: se ogni simbolo è costituito da una realtà conoscitiva, intuitiva, emozionale molto più ampia di quella contenuta nella sua immediata evidenza, per il crocifisso ciò si esalta....In particolare, nell'ambito scolastico, la presenza del simbolo della croce induce nell'alunno ad una comprensione profondamente scorrettta della dimensione culturale dell'espressione di fede, perché manifesta l'inequivoca volontà -dello Stato, trattandosi di scuola pubblica- di porre il culto cattolico "al centro dell'universo, come verità assoluta, senza il minimo rispetto per il ruolo svolto dalle altre esperienze religiose e sociali nel processo storico dello sviluppo umano...."

L'affissione del crocifisso nelle aule è questione non neutra rispetto al problema dell'istruzione....La presenza del crocifisso nelle aule scolastiche comunica un'implicita adesione a valori che non sono realmente patrimonio comune di tutti i cittadini.....connotando così in maniera confessionale la struttura pubblica e ridimensionandone fortemente l'immagine pluralista. E ciò facendo si pone in contrasto con quanto ha stabilito la Corte Costituzionale al riguardo, rilevando come il principio di pluralità debba intendersi come salvaguardia del pluralismo religioso e culturale, che può realizzarsi solo se l'istruzione scolastica rimane imparziale di fronte al fenomeno religioso. E' appena il caso di rilevare, seppure in estrema sintesi, che, alla luce di quanto si è detto, parimenti lesiva della libertà di religione sarebbe l'esposizione nelle aule scolastiche di simboli di altre religioni. L'imparzialità dell'istituzione scolastica pubblica di fronte al fenomeno religioso deve realizzarsi attraverso la mancata esposizione di simboli religiosi piuttosto che attraverso l'affissione di una pluralità, che peraltro non potrebbe in concreto essere tendenzialmente esaustiva e comunque finirebbe per ledere la libertà negativa di coloro che non hanno alcun credo. Sebbene non possa negarsi che la contemporanea presenza di più simboli religiosi eliderebbe la valenza confessionale che si è detto avere l'esposizione del solo crocifisso".

I reclamanti, in ogni caso, traendo anche lo spunto da quest'ultimo passo dell'ordinanza del Dott. Montanaro, debbono necessariamente dedurre che, se è giusto ritenere che "il crocifisso non disturba e non lede alcun diritto degli atei e dei credenti in altre religioni", è altrettanto giusto supporre il contrario, e cioè che "i simboli degli atei e delle altre confessioni hanno il diritto di essere esposti nei luoghi pubblici, perché essi non disturbano e non ledono i diritti dei cattolici". Il che significa, allora, che codesto On.le Collegio, ove dovesse condividere la tesi "ribelle" del Giudice monocratico, dovrà allora accogliere la richiesta, che si avanza immediatamente in questa sede (non integrando una domanda nuova) di ordinare alla P.A. di ostentare a sue spese tutti i simboli religiosi di tutte le religioni concepite dal genere umano dalla preistoria sino ad oggi (ovviamente anche quelle a torto ritenute desuete, non essendo gli Dei assoggettati a termini di scadenza, come avviene di norma per gli alimenti) o, in subordine, di consentire agli odierni reclamanti di esporre nei seggi elettorali i loro simboli, in coerente applicazione del diritto all'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di religione, nonché della pari dignità di tutte le ideologie religiose.

Si sottolinea che questa richiesta -a nostro avviso inammissibile e, comunque, sostanzialmente impraticabile (e ridicola)- è l'unica che potrebbe, in qualche modo, elidere o attenuare la patente discriminazione in atto e, non a caso, essa è stata presa in considerazione da autorevoli giuristi. Si cita (oltre al Giudice Montanaro) l'Avv. Dario Colasanti (Diritto & Giustizia, n. 5/2004, pag. 84 e segg., che si allega) che così si esprime: "Infine, non ci si può esimere dall'enunciare un terzo possibile esito, suggestivo per quanto difficilmente praticabile da un punto di vista giuridico. La Corte Costituzionale, in ossequio al principio di laicità...potrebbe propendere per la legittimità dell'interpretazione che consente l'affissione di più simboli sacri".

Anzi, dal momento che il presente processo dovrà necessariamente svolgersi in un Tribunale italiano, ove vengono ostentati i crocifissi ad onta della pronuncia della Cassazione penale n. 4273/00, che ha esplicitamente escluso la vigenza della circolare del Ministro Rocco, Ministero di Grazia e Giustizia, Div. III, del 29.5.1926 n. 2134/1867 ("Prescrivo che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all'effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia.), i Sigg.ri Protti Emilia e Tosti Luigi chiedono -e pretendono- che il loro processo venga celebrato in un ambiente neutrale ed imparziale e non lesivo del loro diritto di eguaglianza e di non essere discriminati a cagione del loro credo, del loro diritto di libertà di religione e del loro diritto alla riservatezza: tanto più in considerazione del particolare "oggetto" della presente causa, che mira a rimuovere lo stesso simbolo che, guarda caso, troneggia sopra le teste dei Giudici. E siccome questo potrà avvenire solo attraverso la rimozione di tutti i crocifissi da tutte le aule di tutti gli uffici giudiziari italiani, i Signori Protti e Tosti chiedono espressamente, sin da ora, che l'Ill.mo Presidente del Tribunale di Bologna voglia immediatamente e cortesemente attivarsi, presso il Ministro di Giustizia, acciocché questa loro istanza -di contenuto esattamente identico a quella relativa alla rimozione dei crocifissi dai seggi- trovi accoglimento concreto quanto meno per la data della celebranda udienza relativa a questo reclamo.

In via subordinata, dal momento che -applicando le stesse statuizioni del Giudice monocratico alla posizione dei Giudici- si deve necessariamente ritenere, in base al criterio della reciprocità e dell'eguaglianza, che "non è verosimile che non-simboli, quali sono il logo dell'U.A.A.R. (Unione Atei Agnostici Razionalisti) e la menorà ebraica, possano avere una qualche influenza negativa o costituire una qualche remora psicologica riguardo al convincimento religioso dei Giudici e men che meno provocare un turbamento del Loro animo tale da privarli delle loro capacità morali, critiche e di giudizio", i reclamanti Protti e Tosti chiedono che questi due loro simboli religiosi, che si allegano al presente ricorso, vengano permanentemente esposti accanto al Crocifisso esposto nelle aule del Tribunale di Bologna: ben certi, ovviamente, che questa loro "istanza" verrà sicuramente accolta, dovendosi in caso contrario ipotizzare un criminale atto di discriminazione religiosa, sanzionato dall'art. 3 della L. 13.10.1975 n. 654, dal momento che il simbolo dell'UAAR e il simbolo della religione ebraica (cui il dott. Tosti ha aderito ai sensi dell'art. 4. Legge n. 101/1989), "costituiscono anch'essi arredi, del tutto marginali sia per l'ingombro che per la visibilità, che non rappresentano di per sé, né per lo Stato Italiano né per i Giudici, l'imposizione di un credo religioso o di una forma di venerazione, né obbligano lo Stato Italiano o i Giudici a tenere una determinata condotta o a dichiarare la propria posizione in materia religiosa".

In attesa di constatare l'esito di quella che sembrerebbe una fondatissima e giustissima richiesta, i reclamanti si permettono di avanzare dei dubbi sul suo concreto accoglimento: questo soprattutto in considerazione del fatto che il dott. Tosti Luigi, in qualità di dipendente del Ministero di Giustizia, ha già vanamente chiesto che venissero rimossi i crocifissi dalle aule giudiziarie italiane o che, in alternativa, venissero esposti gli altri simboli e, in particolare, la menorà delle religione ebraica. Orbene, questa richiesta non è stata accolta e il dott. Tosti è stato costretto ad adire il TAR delle Marche.

Ma c'è di più. Il dott. Tosti ha anche appeso, materialmente, il simbolo dell'UAAR nelle aule del Tribunale di Camerino (a fianco del calendario) e, guarda caso, nonostante si tratti di un "arredo-simbolo" poco ingombrante e poco visibile (molto meno di "quel" calendario), esso è stato fatto oggetto di immediata rimozione e "sequestro" da parte dell'Amministrazione Giudiziaria Italiana.

Questo patente atto di discriminazione religiosa (art. 3 della L. 13.10.1975 n. 654), perpetrato dall'Amministrazione Giudiziaria ai danni di un dipendente "non cattolico", è di per sé dimostrativo dell'intollerabile e dell'incredibile contraddittorietà dell'ordinanza qui impugnata: l'Amministrazione Giudiziaria italiana, infatti, da un lato si affretta a rimuovere e "sequestrare" i simboli religiosi "diversi" da quelli cattolici, che osano essere esposti a fianco del "crocifisso", perché ritenuti di "razza inferiore" ed "offensivi" della dignità della "superiore razza ariana" (leggi: cattolici), dall'altro, però, per il tramite dei suoi Giudici respinge la richiesta di rimozione del "crocifisso" cattolico affermando che questo simbolo "non turba" -per carità- le coscienze dei non cattolici né offende la loro libertà di religione, la loro coscienza e la loro riservatezza.

A questo punto dell'esposizione è giunto il momento di essere estremamente chiari e franchi: i cattolici non possono pensare di "fare i furbi" ai danni degli altri e, in particolare, non possono sperare di seguitare a godere di questi assurdi privilegi in barba al principio di laicità dello Stato e in barba ai principi di eguaglianza di tutti i cittadini e di tutte le confessioni religiose. Se i luoghi pubblici sono "pubblici" -cioè appartengono a tutti i cittadini- anche gli atei e coloro che credono in altre religioni hanno il sacrosanto diritto di godere degli stessi diritti "condominali", esponendo i loro simboli.

L'esclusione dei simboli degli atei e dei credenti in altre religioni da tutti i luoghi pubblici italiani ha la stessa odiosa valenza RAZZISTICA dell'esclusione degli "sporchi negri" e degli "sporchi ebrei" dai mezzi pubblici di trasporto e da locali pubblici riservati all' "uomo bianco" appartenente alla "superiore razza ariana". La "ghettizzazione" che è stata attuata dai cattolici italiani ai danni dei "diversi" (leggi: atei e credenti in religioni "false" e "inferiori") evoca alla memoria la "ghettizzazione" che Santa Romana Chiesa Cattolica attuò, per prima nella storia dell'Umanità, ai danni degli ebrei e che, poi, proseguì egregiamente ad opera dei suoi "discepoli", cioè del nazi-fascismo.

E' forse venuto il momento di considerare che anche i Sig.ri Protti Emilia e Tosti Luigi, pur nella loro qualità di cittadini italiani "diversi", siano "comproprietari", pro-quota condominiale, di tutti gli edifici e spazi pubblici e, quindi, abbiano gli stessi diritti di "uso" dei cattolici.

Forse è arrivato il momento di capire che non deve esserci spazio per i furbi, per i prevaricatori e per i "privilegiati". Le regole del "condominio" sono queste: o tutti, o nessuno!!

Si rimarca, ad abundantiam, che l'espressione del voto non è soltanto un diritto dei cittadini, ma anche un dovere civico, come espressamente sancito dall'art. 48 della Costituzione, sicché è ancor più marcata l'identità della posizione dei reclamanti rispetto a quella del compianto prof. Montagnana. E che il voto sia anche un "dovere" discende dall'ovvia considerazione che, se tutti i cittadini omettessero di votare -magari per motivi di obiezione legati alla presenza del crocifisso- non vi sarebbe alcun eletto. Quindi, l'obiezione di coscienza, legata alla violazione del principio supremo della laicità dello Stato, è sicuramente esercitabile da chi è chiamato ad esercitare un "dovere" (ancorché "civico") nell'interesse dello Stato (e, quindi, pubblico).

In ogni caso si deve ripudiare la valutazione -riduttiva e per certi versi blasfema- che è stata data del "crocifisso", simbolo religioso per eccellenza per i cristiani, che viene equiparato ad un "oggetto di arredamento": in realtà la Cassazione penale ha costantemente affermato l'esatto contrario, e cioè che "integra il delitto di offese alla religione cattolica (art. 404 C.P.) qualsiasi vilipendio di cose che formino oggetto di culto, come il Crocifisso, l'immagine sacra, la reliquie, etc." (cfr. Cass., Sez. III, 28.10.1966 n. 2419).

Le problematiche che i ricorrenti hanno realmente esposto al Giudice, poi, non sono ricollegabili alla supposta "marginalità" "fisica" del crocifisso, dipendente sia dal suo "scarso ingombro" che dalla sua supposta "scarsa visibilità". Se così fosse, i reclamanti gradirebbero innanzitutto conoscere dal Collegio giudicante quali siano i "parametri" oltre i quali anche il "crocifisso" può assumere, a causa delle sue dimensioni, caratteristiche che possano essere definite "non marginali". Nel frattempo i ricorrenti hanno cura di produrre una foto -a dir poco grottesca, ma altamente significativa delle implicazioni morali che scaturiscono dalla prevaricazione dell'imposizione di un simbolo religioso- che ritrae il "povero" prof. Marcello Montagnana in una delle aule giudiziarie italiane che lo ha visto giudicare per essersi rifiutato di svolgere le funzioni di scrutatore a causa della presenza del crocifisso nei seggi.

I Sigg.ri Protti restano in attesa di conoscere quali saranno le "impressioni" che il Collegio ricaverà dalla visione di tale foto e, in particolare, se la didascalia che l'accompagna ("Un esempio di prevaricazione") sia o meno giustificata dalle "dimensioni" del crocifisso che, a detta del commentatore, viene definito come un "gigantesco crocifisso che incombe sulla Corte che deve giudicare il Montagnana": e questo anche perché i Sig.ri Protti -al pari del compianto prof. Marcello Montagnana- si dovranno presentare dinanzi alla Corte Bolognese per essere giudicati proprio in relazione alla pretesa di rimuovere quello stesso "crocifisso" che, guarda caso, incomberà sulle Loro teste, sicché può sorgere il più che legittimo sospetto che lo Stato Italiano -che è avvezzo a pronunciare le sentenze sotto l'incombenza del crocifisso dei cattolici, pur in assenza di qualsiasi norma che ne legittimi la presenza in aula- non sia particolarmente "IMPARZIALE" e "NEUTRALE" in una causa che mira a rimuovere, seppur temporaneamente, proprio "quel" simbolo.

Proseguendo nella disamina, non si può non censurare la motivazione dell'ordinanza nella parte in cui afferma che "il crocifisso non rappresenta di per sé imposizione di un credo religioso o di una forma di venerazione, né obbliga alcuno a tenere una determinata condotta di adorazione o a dichiarare la propria posizione in materia religiosa".

Anche qui il Giudice non ha minimamente tenuto conto delle statuizioni della Corte di Cassazione e di quelle, pedisseque, che sono state sviluppate nella motivatissima ordinanza del dott. Montanaro, sopra riportate.

In primo luogo questa supposta "neutralità" ed "inoffensività" del crocifisso è smentita in modo eclatante dalla sentenza della Cassazione penale n. 4273 che, come visto, ha mandato assolto il prof. Montagnana dal reato di cui all'art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361 per "essersi rifiutato di assumere l'ufficio di scrutatore a causa della presenza del crocifisso nel seggio elettorale", sancendo che "costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario dell'ufficio elettorale la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo della laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'ORGANIZZAZIONE elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali del crocifisso o di altre immagini religiose".

Del tutto falsa ed erronea è, poi, la negazione della lesione del dirito alla riservatezza perché, a giudizio del Giudice monocratico, i ricorrenti "non sarebbero obbligati, a causa della presenza del crocifisso, a dichiarare la propria posizione religiosa". Si tratta di affermazione sconcertante perché innanzitutto contraddetta dallo stesso comportamento tenuto dalla P.A., la quale rimuove sì i crocifissi, ma solo se gli interessati -che in questo modo sono costretti a manifestarsi per non cattolici- ne fanno esplicita richiesta.

Ma cè di più.

Questa apodittica affermazione è infatti in aperto contrasto con la sent. n. 117/1979 della Corte Costituzionale -anch'essa vanamente citata in ricorso- con la quale la Consulta ha affermato che "il testimone non credente subisce una lesione della sua libertà di coscienza da due punti di vista, distinti ma collegati: in primo luogo egli si manifesta credente di fronte al giudice ed in generale a tutti i presenti, mentre credente non è......né sarebbe sufficiente che il testimone non credente.... espunga con apposita dichiarazione il riferimento alla Divinità: questa ipotesi desta perplessità perché il suo realizzarsi potrebbe pregiudicare, in qualche modo, quel "diritto a non rivelare le proprie convinzioni", cui ebbe a far riferimento questa Corte nella sent. n. 12 del 1972 (punto 2 del considerato in diritto)". Quindi è la stessa Consulta ad insegnarci che qualsiasi comportamento imposto dallo Stato, che induca il cittadino ad un atto manifesto e pubblico di dissenso nei confronti di un simbolo o di un credo religioso, implica la lesione della libertà di coscienza religiosa e il sacrosanto "diritto a non rivelare le proprie convinzioni agli altri". Si è vanamente rimarcata la sostanziale identità della fattispecie esaminata dalla Corte Costituzionale nella sent. 117/1979 (testimone) con quella dell'elettore: se la Corte ha ritenuto assolutamente impraticabile la "soluzione" dell' "espunsione" del "riferimento alla Divinità" dalla "formula del giuramento" -e questo perché lesiva del "diritto a non rivelare le proprie convinzioni agli altri"- deve ritenersi altrettanto impraticabile, perché lesiva dello stesso diritto costituzionale e comunque del diritto alla riservatezza, l'"onere" della richiesta di "espulsione" del "crocifisso" dal "seggio elettorale", che viene imposto dall'Amministrazione all'elettore ateo o non cattolico.

E ciò a tacer del fatto che viene anche patentemente leso il diritto all'eguaglianza, posto che l'onere di palesarsi e di reagire riguarda solo i cittadini di "razza inferiore", cioè gli atei e i non cattolici.

E allora? Perché mai il Giudice monocratico ha completamente obliterato le espresse sentenze della Corte Costituzionale, che hanno affermato dei principi esattamente contrari a quelli da lui "deliberati"?

Si ribadisce per l'ennesima volta, poi, che questo comportamento della P.A. è altamente lesivo della dignità dei cittadini non cattolici, che debbono umiliarsi pubblicamente per chiedere la rimozione temporanea di quel simbolo, per poi vederselo ricollocare dopo la loro sortita dal seggio, quasi fossero degli anti-cristo appestati. Sconcerta, anche qui, che il Giudice monocratico abbia omesso qualsiasi motivazione per confutare le sentenze della Corte Costituzionale e, comunque, per rispondere adeguatamente alla censura relativa alla violazione della riservatezza degli elettori non cattolici.

Altrettanto sconcertante è il passo motivazionale ove si afferma che "la presenza del crocifisso, per il solo fatto di permanere durante lo svolgimento delle operazioni di voto nelle consultazioni elettorali o referendarie, non è idonea ad assumere una connotazione particolare che in qualche modo condizioni, subordini o influenzi la formazione dell'opinione politica o l'espressione del voto da parte degli elettori ovvero valga ad identificare gli elettori cristiani ovvero ancora ad introdurre una discriminazione tra questi e tutti gli altri". Anche qui, infatti, il Giudice monocratico dimostra di non avere grande considerazione né della pronuncia della Corte di Cassazione né della sent. della Corte Costituzionale n. 329/1997, richiamata dalla Cassazione, che hanno esattamente affermato il contrario.

E cioè:

  1. "quelle norme (cioè le norme regolamentari anteriori al Concordato, che contemplavano l'ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche: n.d.r.), in quanto non prevedono una rimozione del simbolo religioso ogni volta che l'aula venga messa a disposizione dell'amministrazione dell'interno per lo svolgimento delle operazioni elettorali, si pongono -non diversamente da quelle interne- in contrasto con lo spirito garantistico ed imparziale della superiore legislazione elettorale: la quale si preoccupa di impedire forme simboliche di comunicazione iconografica, non ammettendo per esempio "la presentazione di contrassegni riproducenti immagini o soggetti religiosi" (art. 14 u. co. d.p.r. 361/57 e succ. mod.)";

  2. Il principio di laicità si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che il luogo pubblico deputato al conflitto tra i sistemi indicato sia neutrale e tale pemanga nel tempo;

  3. La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni seggio elettorale....... si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e di pluralismo;

  4. "la Costituzione, nell'art. 3, 1° comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione". E, nella specie, si differenzia (cioè, si discrimina: n.d.r.) appunto in base alla religione nel momento in cui si dispone l'esposizione del SOLO CROCIFISSO".

E allora? A che servono le pronunce della Cassazione e della Corte Costituzionale, se poi i giudici di merito si possono permettere il lusso di disapplicarle arbitrariamente e senza motivazione alcuna, condannando anche al pagamento delle spese processuali "chi" ha intrapreso un'azione giudiziaria facendo affidamento su di esse? L'esercizio della "giurisdizione" deve rispondere al canone della "motivazione", come sancito dall'art. 111 della Costituzione, oppure a quello dell' "ARBITRIO" ??

Non di meno sconcertante è il passo motivazionale ove si afferma che "il rifiuto dei ricorrenti di votare per motivi di adesione al principio supremo della laicità dello Stato, legati alla presenza generalizzata del crocifisso nei seggi, esclude che il mancato esercizio del voto sia dipeso da un fatto -inteso quale evento, situazione o condotta inevitabile ed insuperabile- perché non dipendente dalla volontà dei ricorrenti e comunque non vincibile da parte loro".

I Sigg.ri Protti e Tosti, invero, non hanno mai affermato che, quel dì, Cristo sia sceso da quel "crocifisso" per impedire loro, con violenza fisica, di votare: le motivazioni che sono state realmente addotte, come sopra esposto, sono di contenuto prettamente morale e, d'altra parte, la Corte di Cassazione ha tenuto conto di queste motivazioni morali allorché ha giudicato ed assolto il prof. Montagnana. Se la Corte suprema avesse adottato i criteri "materialistici" del Giudice monocratico bolognese, il prof. Montagnana sarebbe stato condannato, dal momento che nel suo seggio non vi era neppure un crocifisso e, quindi, nessun Cristo avrebbe potuto compulsare con atti violenti la sua volontà, impedendogli di svolgere l'ufficio di scrutatore.

Altrettanto erroneo è il passo motivazionale ove si adombra l'impossibilità di "accertare la sussistenza effettiva di un obbligo dell'Amministrazione dell'Interno, in assenza di norme espresse, di rimuovere temporaneamente i crocifissi". In realtà l'Amministrazione può essere condannata ad un facere, come costantemente affermato dalla Cassazione, tanto più se si considera che ci si trova di fronte ad un comportamento senza potere della P.A.

Questa considerazione, poi, manifesta una notevole pretestuosità, se solo si considera che l'Amministrazione dell'Interno già provvede a rimuovere, spontaneamente ed immediatamente, i crocifissi, non appena qualche elettore ne fa richiesta: non esiste dunque nessun impedimento legale a che la richiesta azionata dai reclamanti, già perfettamente conforme al comportamento che l'Amministrazione tiene, sia estesa a tutta la "durata" delle operazioni elettorali.

Del tutto erroneo -sotto il profilo giuridico- si profila "il dubbio sulla sussistenza, in astratto, del diritto soggettivo dei privati di indirizzare l'azione della P.A. al di fuori della normativa (costituzionale, primaria, secondaria e regolamentare) che presiede alla formazione della volontà della P.A." e di "pretendere che l'Autorità giudiziaria possa surrogarsi allo Stato nell'emanazione di disposizioni normative dirette ad attuare i principi costituzionali programmatici". Come appena sopra detto, i ricorrenti non hanno mai fatto alcuna richiesta di "indirizzare l'azione della P.A. al di fuori della normativa (costituzionale, primaria, secondaria e regolamentare) (richiesta che ci rimane incomprensibile) né, tantomeno, si sono mai sognati di chiedere al Giudice di "emanare disposizioni normative dirette ad attuare i principi costituzionali programmatici".

Completamente erronea, sempre sotto il profilo giuridico, è l'ulteriore valutazione circa la mera "programmaticità" del "principio di laicità dello Stato", che non farebbe sorgere alcun obbligo diretto dello Stato nei confronti dei cittadini: questa apodittica affermazione è smentita, in modo plateale, dalla sentenza della Cass. pen. citata, dalle plurime sentenze della Corte Costituzionale, dall'ordinanza del TAR del Veneto e dall'ordinanza del Dott. Montanaro.

E queste stesse identiche sentenze contraddicono, poi, l'affermazione del Giudice che qualifica come "pretestuoso e ingiustificato il rifiuto di votare opposto dai ricorrenti alle precedenti elezioni europee, pur in presenza della disponibilità dell'Amministrazione a rimuovere il crocifisso per la sola durata del loro voto", e questo anche sulla base della considerazione che "la riapposizione del crocifisso dopo l'uscita dei ricorrenti dal seggio elettorale non avrebbe potuto ledere, turbare o menomare l'esercizio del diritto di voto".

Anche qui il Giudice contraddice immotivatamente la pronuncia della Cassazione, la quale ha al contrario statuito che la rimozione dei simboli non può essere né limitata ad un seggio né temporanea, ma deve essere generalizzata. Senza considerare, poi, che i ricorrenti ritenevano -e ritengono- di avere la stessa dignità e gli stessi diritti degli "uomini bianchi di razza ariana", cioè dei cattolici, sicché non hanno inteso -e non intendono- soggiacere ad alcuna umiliante richiesta di rimozione temporanea dei crocifissi.

Comunque, la prova del nove della "logicità" di queste argomentazioni i Sigg.ri Protti-Tosti la potranno sperimentare alla prossima udienza dinanzi a questo On.le Collegio, che dovrà essere tenuta -secondo i loro desiderata- con la contestuale presenza del simbolo dell'UAAR e della menorà ebraica. I reclamanti potranno constatare, allora, se il Collegio acconsentirà ad "ospitare" i due simboli religiosi "pagani" e a mantenerli nell'aula delle udienze anche dopo che i Sigg.ri Protti-Tosti se ne saranno andati, oppure se, seguendo l'adagio del "predica bene, ma razzola male", a questi due simboli sarà precluso l'accesso nelle pubbliche aule giudiziarie, rigorosamente riservate all'"uomo bianco di razza ariana".

Infine, l'ultima doglianza del reclamo si deve indirizzare nei confronti della "condanna alle spese", che è stata decretata dal Giudice addirittura in totale assenza di qualsiasi domanda da parte dell'Avvocatura di Stato.

I ricorrenti, pur consapevoli di essere "meritevoli" dell'inflizione esemplare di tale condanna, perché "rei" di aver intrapreso un'azione "temeraria" (addirittura definita "eversiva") sulla base del pieno conforto di sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del TAR e di altro giudice di merito, si permettono di censurare tale condanna, che va oltre i petita e i desiderata delle stessa parte "vincente". La quale parte "vincente", per altro verso, esce da questa prima fase del giudizio cautelare anche con un'insperata "gratificazione" nel merito, che va anch'essa ben oltre le proprie richieste e i propria desiderata. E, in effetti, in seguito a questa pronuncia bolognese l'Amministrazione dell'Interno potrà sentirsi da oggi in poi legittimamente "esonerata" anche dall'obbligo di rimuovere i crocifissi dai seggi, per soddisfare le richieste di qualche elettore di "razza inferiore".

Anche questo "obbligo" risulta ora cancellato dal Giudice monocratico del Tribunale di Bologna che, seguendo la saggezza popolare e disinteressata dei cattolici, ha sentenziato che, in fondo, "il crocifisso non è ingombrante, è scarsamente visibile ed è inoffensivo: dunque, che fastidio dà?,".

P. Q. M.

si chiede che l'Ecc.mo Tribunale, previa rimozione permanente, in rito, di tutti i crocifissi esposti nelle aule del Tribunale di Bologna o, in alternativa, dell'esposizione permanente dei simboli dell'U.A.A.R. e della menorà ebraica nelle aule del Tribunale di Bologna, accolga il presente reclamo e, per l'effetto, ordini al Prefetto di Rimini e al Ministro dell'Interno pro-tempore, ex lege rappresentati dall'Avvocatura distrettuale di Bologna, di rimuovere da tutti i seggi elettorali italiani o, in subordine, da tutti i seggi elettorali dell'Emilia Romagna o, in ulteriore ed estremo subordine, dalla sezione elettorale n. 6 (Scuola Media Panzini, Via Vezia 17, Rimini), dove i ricorrenti sono chiamati a votare, il simbolo religioso del crocifisso per tutta la durata delle operazioni elettorali, oppure, in via alternativa, voglia ordinare ai convenuti di esporre a spese dello Stato, nei seggi elettorali e per tutta la durata delle elezioni, tutti i simboli religiosi (pretesa inammissibile) o, in ulteriore subordine, consentire ai ricorrenti di esporre nei seggi elettorali, a proprie spese, tutti i loro simboli religiosi ed ideologici. In ogni caso con riforma della condanna alla spese".

Allega:

  1. simbolo dell'UAAR;

  2. menorà in ottone;

  3. ordinanza impugnata;

  4. foto del processo penale al prof. Marcello Montagnana;

  5. commento D. Colasanti, Diritto & Giustizia n. 5/2004.

Ai fini del contributo unificato si dichiara che la presente causa, relativa a materia elettorale, è esente dal contributo ex art. 50 D.P.R. 20.3.1967 n. 223.

Rimini, li 25 marzo 2005.

Avv. Fabio Pierdominici

PROCURA ALLE LITI

Deleghiamo a rappresentarci e a difenderci nel presente procedimento e in quello successivo di merito, nonché negli eventuali appelli, ricorsi e reclami, l'Avv. Fabio Pierdominici del foro di Camerino e l'Avv. Ugo Lenzi di Bologna, conferendo loro ogni più ampio potere, ivi inclusi quelli di proporre reclami, ricorsi, appelli ed esecuzioni, elettivamente domiciliandoci in Bologna, Via Marconi 1, presso l'Avv. Ugo Lenzi.

Rimini, li 25.3.2005

Luigi Tosti Protti Emilia

Sono autentiche

Avv. Fabio Pierdominici

3


1) Ordinanza di rigetto Palumbi su istanza di Luigi Tosti!

2) Reclamo al Collegio contro l'esposizione del crocifisso di Luigi Tosti!

3) Sentenza del TAR del Veneto!

4) Sentenza con cui la Corte Costituzionale rileva che l'esposizione del crocifisso nelle scuole è un crimine!

5) Sentenza di assoluzione di Luigi Tosti da parte della Corte di Cassazione sull'interruzione d'ufficio per le proteste contro la presenza del crocifisso!

6) Le indiscrezioni sulle motivazioni della sentenza di assoluzione nei confronti di Luigi Tosti e le implicazioni nella società civile!

TORNA ALLA SENTENZA SUL CROCIFISSO DEL TAR DEL VENETO!


Claudio Simeoni
Meccanico
Apprendista Stregone
Guardiano dell'Anticristo

P.le Parmesan, 8

30175 Marghera – Venezia

tel. 041933185

e-mail: claudiosimeoni@libero.it

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