Platone (427 a.c. - 347 a.c.)

Protagora, educazione e virtù

di Claudio Simeoni

Cod. ISBN 9788827811764

La Teoria della Filosofia Aperta: sesto volume

 

Filosofia Aperta su Platone

 

La pagina contiene:

Fornire i mezzi ai ragazzi per affrontare la vita sociale
1) Insegnare il comportamento virtuoso
2) Manipolazione ed educazione alla virtù dell’infanzia
3) Relazione giustizia e santità
4) Il rifiuto della realtà soggettiva da parte di Platone
5) Il concetto di salvezza in Platone
6) Protagora e Socrate

 

 

Fornire i mezzi ai ragazzi per affrontare la vita sociale

Nel Protagora Platone affronta il problema fra ciò che lui pensa sia la virtù e ciò che lui pensa sia l'apprendimento, in questo contesto, della virtù.

Platone affronta il tema del divenire dell'individuo in quanto cittadino sociale e che cosa pensa quel cittadino quando affronta la politica o la vita sociale in funzione della supremazia oligarchica e tirannica contro ogni visione democratica.

Scrive Platone nel Protagora:

Né avviene così solo nella vita pubblica; ma anche nella vita privata i più sapienti e i migliori cittadini non sono in grado di trasmettere quella virtù, che pure essi posseggono. Infatti Pericle, padre di questi due giovani", li ha fatti educare in modo perfetto in tutte quelle cose che sono in potere dei maestri, mentre in quelle cose in cui egli è sapiente, né li educa egli stesso, né li affida ad altri, ma li lascia pascolare da soli e correre liberamente come gli animali sacri, nella speranza che essi possano imbattersi per conto proprio nella virtù. E se vuoi, ecco un altro esempio. Lo stesso Pericle, tutore di Clinia", fratello minore del nostro Alcibiade, nel timore che quegli venisse corrotto da Alcibiade, lo separò da costui e lo affidò ad Arifrone, perché lo educasse; ma, prima ancora che fossero trascorsi sei mesi, Arifrone glielo rimandò, non sapendo cavarne nulla di buono. E ti potrei citare il nome di numerosissimi altri uomini, che, pur essendo personalmente buoni, non seppero rendere buono nessun altro, né dei parenti né degli estranei. Ora, o Protagora, se considero questi esempi, non mi pare che la virtù si possa insegnare. Ma, ora che ti sento dire queste cose, io ripiego dalle mie posizioni e penso che nelle tue parole ci sia qualcosa di valido, perché sono convinto che sei uomo che ha esperienza di molte cose, e che molte le hai imparate e molte le hai scoperte tu stesso. Se, dunque, sei in grado di far vedere più chiaramente che la virtù è insegnabile, non rifiutarti di farlo e dimostracelo».

Pag. 818

La questione nel Protagora è la seguente: la virtù si può insegnare o non si può insegnare?

Resta in sospeso su che cosa sia la virtù per Socrate e la relazione fra l'uomo e la virtù.

Platone ha un progetto preciso: la trasformazione degli uomini in bestiame. Lo fa dire a Socrate, cosa che Protagora gli contesta.

La cosa che lascia perplessi nel dialogo, è che Protagora ufficialmente perde lo scontro con Socrate perché Socrate lo porta a dichiarare che la virtù non si può insegnare, ma di fatto, nell'analisi della discussione, è Socrate che perde perché non dimostra che la virtù è un oggetto diverso dall'uomo che la manifesta.

In questo momento sto formulando l'ipotesi secondo cui anche questo dialogo si colloca all'interno dello scontro fra oligarchia e democrazia: se la virtù si può insegnare e trasmettere, gli uomini non sono virtuosi perché la società non gli ha insegnato o trasmesso i principi virtuosi, se la virtù non si può insegnare, come afferma Socrate, significa che la virtù è un dono del dio padrone, dell'oligarca, e gli uomini che non obbediscono all'oligarca, non essendo virtuosi, sono soggetti di condanna.

Tutta l'idea di Socrate/Platone nel Protagora è retta dall' idea di Platone secondo cui, nella relazione fra genitori e figli afferma Socrate:

"… li ha fatti educare in modo perfetto in tutte quelle cose che sono in potere dei maestri, mentre in quelle cose in cui egli è sapiente, né li educa egli stesso, né li affida ad altri, ma li lascia pascolare da soli e correre liberamente come gli animali sacri, nella speranza che essi possano imbattersi per conto proprio nella virtù. "

In sostanza, la virtù, in quanto soggetto agente, può incontrare o non incontrare l'uomo, ma non si può insegnare.

Socrate sostiene che le idee preconcette, che egli chiama virtù, essendo oggetti in sé, non si possono insegnare all'uomo, ma possono entrare nell'uomo. Tutto lo sforzo di Socrate nella discussione con Protagora consiste nel dimostrare l'oggettività della virtù o degli elementi che compongono la virtù e dimostrare, in conseguenza, che ciò che gli uomini apprendono non è la virtù, ma manifestano quei comportamenti, chiamati virtuosi, senza avere la virtù perché la virtù sarebbe determinata dalla consapevolezza del bene e del male che Socrate si guarda bene dal definire se non in funzione di una salvezza.

L'oligarca, il tiranno, che come Crizia possiede la virtù, deve essere superiore agli uomini che, a differenza del tiranno, non devono essere virtuosi per permettere al tiranno di vessarli in quanto non virtuosi. Crizia ammazzerà gli stranieri benestanti che abitano ad Atene per rubare loro le ricchezze e finanziare il proprio dominio. Molto probabilmente è uno dei motivi per cui Socrate sarà condannato a morte.

 

Insegnare il comportamento virtuoso

Per Platone la virtù è data dal coraggio, dall'audacia, dalla temperanza, dalla sapienza, dalla giustizia e dalla santità.

Tutte queste cose, in Socrate appaiono come oggetti in sé, parte dell'Idea di Virtù o virtù, Idee diverse oggettivamente determinate. Queste cose che formano la virtù non sono la manifestazione di un soggetto nel mondo in cui quel soggetto vive, ma sono soggetti che agiscono, Idee. Come tali giungono all'uomo, ma l'uomo non le può apprendere.

Puoi apprendere il coraggio? Se faccio un numero sufficiente di atti attraverso i quali affronto aspetti dello sconosciuto che mi circonda, costruisco una predisposizione soggettiva per cui lo sconosciuto, quando si presenta, non ferma la mia azione, ma io riesco a pensare a delle possibilità con cui affrontarlo. Il coraggio, come oggetto in sé, posso non essere in grado di definirlo razionalmente, ma il mio comportamento è oggettivamente coraggioso quando davanti alla condizione o alla contraddizione che si presenta io predispongo me stesso per affrontarla. Il coraggio non dipende da un concetto oggettivo di bene o di male, ma dalla mia relazione con il mondo in cui vivo.

La temperanza è una virtù o una non-virtù?

Oggetti. Da qui l'idea di Socrate che si contrappone a Protagora secondo cui, essendo questi oggetti che formano la virtù oggetti in sé e non espressioni dell'uomo, non possono essere insegnati all'uomo perché si devono esprimere in sé nell'uomo.

Come il sapere e la conoscenza che, secondo Platone, non viene costruita dall'uomo, ma viene "ricordata" dall'uomo attingendo alle vite passate in cui la sua anima ha costruito la sua conoscenza.

La stessa giustizia non è intesa in relazione a qualche cosa o per qualche cosa, ma come Giustizia in sé. Gli uomini religiosi antichi vengono stuprati da Socrate. Non sono le loro azioni giuste perché loro si sono identificati in Giustizia nelle relazioni con il mondo, ma Giustizia ha operato e dal momento che giustizia ha operato quelle azioni sono giuste in sé.

Dal suo punto di vista Socrate ha ragione: "Che cosa insegno Giustizia agli uomini se Giustizia è un essere in sé che agisce?"

Al contrario, Platone mette in bocca a Protagora il concetto di "uomo che agisce secondo giustizia". Posso insegnare all'uomo i suoi interessi nell'agire nel mondo e, dunque, posso indicare all'uomo un agire con giustizia al fine di salvaguardare i suoi interessi nelle relazioni con il mondo. Questo vale per qualunque altro concetto riferito alla virtù. Dobbiamo sapere se il nostro interlocutore, come fa il dio padrone di Socrate, intende la virtù in relazione a sé stesso, e dunque un comportamento oggettivo da tenere a cui il virtuoso si deve uniformare, o se considero la virtù il modo dell'uomo di vivere nel mondo affrontando tutte le trasformazioni che la vita gli presenta.

La virtù non è "ciò che esprimi attraverso il comportamento sociale", ma è come "puoi comportarti in funzione di quello che vuoi ottenere in relazione alle condizioni in cui ti devi comportare".

Questa condizione è la condizione a cui vuole arrivare Socrate contro Protagora. A Socrate interessa vendere "le condizioni per cui ti devi comportare".

Protagora dice a Socrate che tutto il mondo agisce per imporre un comportamento virtuoso. Si dimentica di dire "in relazione a che cosa deve essere il comportamento virtuoso".

Scrive Platone nel Protagora, facendo parlare Protagora:

E se vorrai considerare, o Socrate, ciò a cui mira il punire chi commette ingiustizia, questo ti dimostrerà, di per-sé, che veramente gli uomini sono convinti che la virtù si possa acquistare. Nessuno, infatti, punisce coloro che commettono ingiustizie in considerazione e a motivo del fatto che commisero ingiustizia: chiunque, almeno, non si abbandoni a irrazionale vendetta come una belva. Ma chi cerca di punire secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso - infatti non potrebbe certo ottenere che ciò che è stato fatto non sia avvenuto - ma in considerazione del futuro, affinché non commetta nuovamente ingiustizia né quello stesso che viene punito, né altri che veda costui punito. Ma chi pensa a questo modo, pensa che la virtù sia frutto di educazione. Dunque, punisce al fine di prevenire l'ingiustizia. Pertanto, tutti coloro che Puniscono, e nella vita privata e nella vita pubblica, hanno questa convinzione. E gli altri popoli, e non meno degli altri gli Ateniesi tuoi concittadini, castigano e puniscono coloro che ritengono colpevoli; cosicché, in base a questo ragionamento, anche gli Ateniesi sono fra coloro che ritengono che la virtù si possa acquistare ed insegnare. Che, dunque, a buona ragione i tuoi concittadini accettino che anche un fabbro e un calzolaio diano consigli nelle questioni politiche, e che siano convinti che la virtù sia insegnabile e acquistabile, o Socrate, te l'ho dimostrato a sufficienza, come mi sembra.

Pag. 821

E' indubbio che questo tipo di comportamento, che Protagora e Socrate chiamano "virtuoso", si può insegnare. Proibire un'azione perché quell'azione è delittuosa, stando a questo schema, è imporre un comportamento diverso che, rispetto a quell'azione, appare virtuoso.

Con questo discorso Protagora, affermando di fatto che il comportamento virtuoso è un comportamento soggettivo e che pertanto può essere insegnato, ha sconfitto Socrate fin dall'inizio. Socrate si preoccupa di usare il sofismo per portare Protagora a riconoscere che gli elementi, con cui Protagora definisce la virtù, sono elementi oggettivi, sganciati dall'uomo e dal suo divenuto, che possono presentarsi in un uomo e non in un altro. Non appartengono al divenuto dell'uomo.

Socrate e Platone si rifiutano di continuare questo tipo di discorso. Sono entrati in un terreno pericoloso. Se riconoscono che la legge serve ad educare alla virtù i cittadini, di fatto riconoscono che la virtù può essere insegnata.

Per questo motivo Platone tronca di netto dopo il discorso di Protagora e costruisce una situazione di conflitto in cui vengono modificati i termini di confronto fra Socrate e Protagora.

 

Manipolazione ed educazione alla virtù dell'infanzia

Protagora dimostra a Socrate come l'intera società, per quanto piena di carenze, è organizzata per "educare" i bambini a sé stessa. Questa "educazione", secondo Protagora, è il tentativo di alimentare la virtù nei ragazzi o, quanto meno, seguendo quello schema e cambiando i contenuti, si possono condurre i ragazzi a praticare la virtù.

Questo può avvenire solo perché la virtù non è pensata come oggetto in sé, ma come espressione della vita dell'uomo.

Scrive Platone attribuendolo a Protagora:

«Cominciano fin da quando i figli sono bambini e continuano poi per tutta la vita a fornire loro insegnamenti ed esortazioni. E, non appena il bambino comincia a capire il senso delle parole, la nutrice, la madre, il precettore e lo stesso padre si sforzano in tutti i modi di farlo diventare quanto possibile migliore, insegnandogli e mostrandogli, per ogni cosa che faccia o dica: "Questo è giusto e questo ingiusto, questo è bello e questo brutto, questo è santo e questo empio, fa' questo, non fare quello". E se ubbidisce di sua spontanea volontà, bene; se no, lo raddrizzano con minacce e con busse, come si fa con un legno storto. In seguito, quando lo mandano a scuola, raccomandano ai maestri di prendersi cura molto più della buona educazione dei ragazzi che non dello studio delle lettere e della musica. E i maestri si prendono cura di essi, e, quando hanno imparao a leggere e sono in grado di capire il senso degli scritti, come prima il senso delle parole, offrono loro da leggere sui banchi opere di grandi poeti, e li costringono ad imparare a memoria queste opere ricche di ammonimenti, celebrazioni, elogi ed esaltazioni di antichi uomini di virtù, affinché il ragazzo, preso da ammirazione, li imiti e desideri diventare simile a loro. A loro voltai maestri di cetra fanno altrettanto, e si preoccupano della costumatezza dei giovani, e che essi non commettano nulla di male.

Pag. 822

Socrate non è in grado di contestare questa linea di discussione proposta da Protagora e Platone deve far in modo che questo tipo di discussione venga cancellata dall'orizzonte del pensiero umano.

Dal momento che viene individuato un sistema di relazioni fra la società ed il ragazzo attraverso cui il bambino viene "educato" alla società, la virtù diventa la direzione in cui le azioni "educative" devono tendere qualora la società, nel suo insieme e i singoli individui, veicolino nella pratica della virtù la ricerca del proprio piacere d'esistenza.

Socrate, a questo punto, incalza Protagora con un nuovo quesito.

Scrive Platone nel Protagora attribuendolo a Socrate:

«Orbene, o Protagora, per essere completamente soddisfatto mi manca solo una piccola cosa, cioè che tu mi risponda a questo. Tu dici che la virtù si può insegnare, ed io credo a te, più che a chiunque altro: però, una cosa che tu hai detto mi ha sorpreso, e dunque colma questo vuoto nella mia anima. Hai detto che Zeus avrebbe mandato agli uomini la giustizia e il rispetto, e in più punti del tuo discorso hai nominato la giustizia, la temperanza, la santità e tutte queste cose come se fossero nel complesso una realtà unica, ossia la virtù; allora devi spiegarmi con precisione questo: la virtù è una realtà unica e la giustizia, la temperanza e la santità sono parti di essa, o tutti questi che ora io ho menzionati sono solamente nomi diversi di quella medesima e unica realtà? Questo è ciò che ancora desidero sapere».

Pag.824 – 825

Platone, attraverso Socrate, separa la virtù dall'uomo virtuoso.

Protagora, affermando che la virtù la manda gli Dèi, significa che la virtù, viene alimentata negli uomini dagli Dèi ed è per questo che, secondo Protagora, o le idee che Platone mette in bocca a Protagora, la virtù può essere insegnata perché l'insegnamento permette agli Dèi di inviare la virtù o le virtù.

Al contrario, Socrate e Platone, che hanno in testa l'Uno creatore dal quale le idee, e con esse la virtù, viene controllata dall'Uno e diventa "dono o concessione dell'Uno all'uomo", non può essere insegnata in quanto la virtù è controllata ed eventualmente concessa dal dio padrone.

Di unico c'è il singolo individuo che manifesta nel mondo la propria virtù o, se vogliamo, le sue virtù come qualità che esprime nelle relazioni con il mondo. Considerando unico il soggetto, la donna o l'uomo, che vivono le relazioni, unica è la virtù che esprimono in molti modi e con molte qualità. Ma se noi consideriamo le specifiche qualità in cui noi possiamo distinguere le varie "virtù", possiamo parlare di virtù diverse. Quando parliamo di Giustizia, come allegoria o come Divinità che si esprime nelle relazioni fra i soggetti dell'universo, Temi, non ci riferiamo al singolo atto o alla singola decisione, ci riferiamo ad un processo generale di relazioni dove gli squilibri imposti dall'agire dei soggetti nel mondo tendono a trovare un nuovo e diverso equilibrio che chiamiamo giustizia. Ma sono i processi di squilibrio e riequilibrio nelle relazioni che appartengono all'ambito di giustizia, non è Giustizia che agisce per ripristinare gli equilibri.

Zeus manda il riequilibrio all'interno delle relazioni nella Natura o fra gli uomini e noi chiamiamo il ripristino di equilibri da cui partiamo per nuovi squilibri, giustizia. Quando parliamo di Giustizia parliamo delle relazioni fra amicizia e contesa furente o fra armonia e peitò. Quando parliamo di giustizia di Zeus, parliamo delle azioni di Zeus. Le azioni con cui Zeus fonda il suo futuro che noi, beneficiando di quelle azioni, chiamiamo giustizia e siamo pronti a chiamare ingiustizia quando quelle azioni ci danneggiano: il fulmine di Zeus o il terremoto di Poseidone.

Socrate/Platone ha il problema di rivoluzionare il pensiero antico introducendo l'idea del dio unico, padrone delle idee e del presente in cui l'uomo vive.

Per Socrate e Platone tutto deve essere semplice, tutto deve essere sì o no, mentre per Protagora la realtà è ricca di variabili e di sfaccettature nelle quali l'uomo si posiziona e si adatta acquisendo gli strumenti con cui affrontare la sua vita.

 

Relazione giustizia e santità

La giustizia si esprime nelle azioni, ma le azioni sono giuste quando le azioni sono state fatte. Per Protagora gli uomini possono fare azioni giuste o ingiuste e in questo contesto possono agire come Giustizia.

Per Socrate e Platone Giustizia non è un'azione degli uomini che va in quella direzione, ma è un oggetto in sé, un'Idea dell'Uno che opera in sé ed essendo idea dell'Uno che opera in sé, ogni azione di Giustizia è oggettivamente giusta. Ma che cosa c'è di "Giustizia" nel fulmine con cui Zeus incendia il bosco o nel terremoto di Poseidone?

C'è chi è danneggiato e c'è chi ne beneficerà: per uno è giustizia e per l'altro è ingiustizia.

Scrive Platone nel Protagora:

«La giustizia, dunque, è una cosa che ha come propria caratteristica quella di essere giusta, direi rispondendo a chi me lo domandasse. Anche tu?».

Pag. 825

Se Giustizia è oggetto in sé, ogni delitto commesso per Giustizia è giusto e santo.

Questa è l'idea che Platone introduce nella storia del pensiero.

Dal momento che Giustizia è soggetto, chi possiede quel soggetto possiede giustizia al di là delle azioni che mette in atto in nome di Giustizia. L'ingiustizia sociale nasce dal possesso di Giustizia. E la grande rivoluzione del pensiero di Platone consiste nel considerare santo il delitto commesso in nome di Giustizia. In questo modo, i delitti fatti da Crizia per derubare i cittadini stranieri ricchi e sottrarre loro i beni, diventano atti di giustizia.

Scrive Platone nel Protagora attribuendolo a Socrate:

«Orbene, o Protagora, dopo aver ammesso questo, che cosa gli risponderemmo se ci domandasse: "Allora la santità non è tale da essere cosa giusta, e la giustizia non è tale da essere cosa santa, ma è tale da essere cosa non santa? E la santità è tale da non essere cosa giusta, e dunque cosa ingiusta, e la giustizia cosa empia?". Che cosa gli risponderemmo? lo, per conto mio almeno, risponderei che anche la giustizia è cosa santa e la santità cosa giusta; e anche per conto tuo, se tu me lo permettessi, risponderei lo stesso: che la giustizia è uguale alla santità o in sommo grado simile alla santità, e che fra giustizia e santità c'è somiglianza più stretta che fra tutte le altre parti della virtù. Ma rifletti se non mi permetti di rispondere così, oppure se questa è anche la tua opinione».

Pag. 826

Giustizia è cosa empia?

Sì!

Lo è quando Giustizia compie azioni non giuste; cioè contrarie alle necessità degli uomini e funzionali al potere di un uomo solo: del tiranno, dell'oligarca, del re o del dio padrone di turno.

La realtà sociale è fatta di relazioni di Giustizia nella misura in cui gli uomini applicano lo stesso peso e la stessa misura sia a sé che agli altri, ma nel momento stesso in cui qualcuno gode di privilegi o di prerogative negate ad alti, qualunque sia il motivo perché ne goda in maniera diversa, l'empietà si è fatta giustizia.

L'Uno di Platone, a cui Platone attribuisce prerogative e diritti diversi dal singolo uomo e al quale vuole sottomettere il singolo uomo, è un atto di ingiustizia assoluta. Un atto criminale.

Nella misura in cui si uccide o si stuprano i bambini in nome e per conto del dio padrone e chi lo fa non viene adeguatamente perseguito, l'empietà si è impossessata di quella società civile.

L'empietà è l'obbiettivo di Socrate/Platone nell'opporsi a Protagora.

 

Il rifiuto della realtà soggettiva da parte di Platone

Platone rifiuta l'idea che la realtà sia percepita in maniera soggettiva e che la morale dell'uomo sia una condizione soggettiva dell'uomo stesso.

Quando qualche cosa funziona per dei soggetti e non funziona per altri soggetti, la realtà sfugge dalla categoria duale e Platone non può accettare che esista una condizione non duale. Per esempio la giustizia è giusta in sé, ma ciò che per alcuni è giusto, è ingiusto per altri e dunque Giustizia cessa di essere un soggetto in sé per diventare una condizione soggettiva con cui le persone pensano alla realtà. Mentre nel politeismo pre-platonico giustizia è compromesso o equilibrio fra esigenze diverse delle parti che entrano in relazione, contraddizione o conflitto, nel platonismo Giustizia è oggetti di repressione, prevaricazione, tirannia e dominio del più forte sul più debole.

L'assolutismo di Socrate vacilla davanti all'articolazione delle relazioni soggettive proposto da Protagora. L'irritazione di Protagora è chiara: Socrate si rifiuta di prendere in considerazione le diversità, si rifiuta di discutere le variabili che si presentano nel vivere sociale come se Socrate non avesse mai vissuto nella società.

Scrive Platone nel Protagora attribuendolo a Socrate a cui risponde Protagora:

Mi parve che Protagora fosse ormai irritato, bellicoso e polemico nelle sue risposte. Vedendolo in questo stato d'animo, stando bene in guardia, con delicatezza gli domandai: «Parli, o Protagora, di quelle cose che non sono utili agli uomini, oppure di quelle che non sono utili assolutamente? E chiami buone anche queste ultime?».

Ed egli rispose: «Niente affatto io conosco molte cose che sono nocive agli uomini: cibi, bevande, medicine e moltissime altre; altre che sono utili; altre, invece, che non sono né utili né dannose agli uomini, ma lo sono per i cavalli; e altre cose che lo sono per i buoi soltanto o peri cani; altre, infine, che non sono utili a nessun animale, ma alle piante. E delle cose utili alle piante, alcune sono buone per le radici, ma dannose ai germogli, come ad esempio, il concime, che è buono se deposto alle radici di tutte le piante, a se tu lo spargessi sui germogli e sui ramoscelli rovinerebbe tutto. E così anche l'olio è nocivissimo a tutte le piante e nemicissimo dei peli di tutti gli animali, tranne che di quelli dell'uomo; per i peli dell'uomo e per tutto il resto del corpo è invece salutare. Il bene è qualcosa di così vario e multiforme che, anche nel caso citato, mentre è buona per l'uomo per le parti esterne del suo corpo, la stessa cosa è, invece, dannosissima per quelle interne. Per questo, tutti i med ici proibiscono agli ammalati di usare l'olio, se non in piccolissima dose nelle cose che devono mangiare: quanto basta ad attenuare l'impressione olfattiva sgradevole che può venire dai cibi e dalle bevande».

Intermezzo. Crisi del dialogo Socrate minaccia di andarsene in quanto Protagora non rimane sul piano dialettico. A queste parole, i presenti risposero…

Pag. 828 – 829

Socrate/Platone non sopportano Protagora. Non perché Protagora non sta nei discorsi, ma perché ogni parola, ogni affermazione, assume forme e significati diversi a seconda dei contesti in cui è usata. Socrate non è in grado di seguire i vari significati della medesima parola, i diversi usi nei contesti diversi o, meglio, lo distraggono dall'Uno da cui le idee provengono.

Protagora commenta le affermazioni di Socrate affermando che una sostanza in certe condizioni e riferita ad alcuni soggetti è positiva, dunque rappresenta il bene mentre, riferita ad altri soggetti è negativa, li danneggia, e dunque, per quei soggetti rappresenta il male.

Questa condizione dell'esistenza, affermata da Protagora, implica una grande capacità di analisi delle relazioni fra il soggetto e il mondo o i soggetti del mondo in cui il soggetto vive e con cui si relaziona.

Socrate non può accettare questa visione complessa della realtà. Per Socrate una cosa buona è oggettivamente buona e il soggetto si deve adeguare alla bontà della cosa che è buona in sé: come la cicuta.

Mentre Protagora ha rispetto per i soggetti nel mondo affermando che ad alcuni alcune cose fanno bene mentre le stesse cose danneggiano altri; Socrate pretende che il mondo si adegui alla sua dimensione e dunque affermi che è buono anche ciò che lo danneggia in quanto se è buono non può oggettivamente danneggiarli.

La bontà, come il bene e il male, la giustizia e la temperanza, sono oggetti in sé, Nella visione di Socrate non può esistere il bene e il male come concezione del soggetto, ma il bene e il male sono condizioni oggettive: ciò che è bene o male per Socrate deve essere bene e male per tutti gli uomini del mondo.

Socrate, per aggirare Protagora, propone di usare solo due termini contrapposti. Afferma che l'uomo, pur conoscendo che le cose cattive sono cattive, le fa ugualmente.

Questa è una menzogna di Socrate. L'uomo non fa mai cose cattive o cose nocive. L'uomo fa delle azioni che rispondono ai suoi bisogni e alle sue necessità. Queste azioni sono funzionali all'uomo che le fa in relazione al mondo in cui è divenuto.

Non è vero, come dice Socrate, che le cose cattive vengono fatte perché vinto, ma vengono fatte per stato di necessità che non è un'azione che combatte l'uomo, ma è una pulsione vitale che esce dall'uomo. Non esiste nessuna azione che può essere considerata "cattiva".

Se io decido che Socrate deve bere la cicuta, per me non è un'azione cattiva. E' un'azione buona e saggia volta al bene perché Socrate è il male che davanti alla molteplicità del mondo tende a ridurlo ad un'unità o a semplificarne i comportamenti per poterli criminalizzare. Dunque, io, proponendo di far bere la cicuta a Socrate, faccio un'azione buona, un'azione di giustizia per tutti coloro che sono stati ammazzati da Crizia per sottrarre i loro beni.

Socrate, che dimostra di essere malvagio, può dire che la mia azione è cattiva, ma non può dire che la mia azione è fatta perché "io sono vinto".

Portando Socrate a bere la cicuta, io provo piacere. La vendetta per le malvagità di Socrate mi procura piacere, finalmente l'equilibrio per i torti subiti dagli Ateniesi per l'attività dei tiranni come Crizia, sono stati riparati.

Se io ritenessi che far bere la cicuta a Socrate fosse un atto cattivo perché io ritenevo giusto che Socrate e i Tiranni depredassero gli Ateniesi, qualora avessi dato la cicuta a Socrate, avrei commesso un'azione cattiva e, nel fare tale azione che comunque costruiva il bene degli Ateniesi, avrei potuto dire di essere stato "vinto dal bene".

Io ho violentato il mio concetto di cattivo per fare un'azione buona: dare la cicuta a Socrate.

Nessun uomo fa azioni cattive sapendo che sono azioni cattive perché farebbe azioni cattive contro sé stesso.

Il ladro che ruba del denaro, fa un'azione buona a sé stesso. E' la società che attraverso le sue leggi dice al ladro "hai fatto un'azione cattiva", ma il ladro ha fatto un'azione buona a sé stesso, non ha fatto un'azione cattiva alla società. Se il ladro, dopo che ha rubato il denaro, raggiunto lo scopo, decide di privarsi del denaro, restituendolo e privandosene, sta facendo un'azione cattiva a sé stesso perché vinto dalla compassione per il derubato. Ma non è il bene che lo ha vinto, perché lui, rubando, ha fatto il bene.

Non esiste una persona che fa il male, sapendo che è il male e solo per il male. Dunque, Socrate farnetica quando dice:

Ma allora in voi il bene non merita di vincerla sul male, oppure merita?".

Pag. 845

A meno che Protagora non ammetta che il bene è un oggetto in sé, distinto dall'uomo e il male è un oggetto in sé distinto dall'uomo e che entrambi agiscano nell'uomo ognuno a proprio vantaggio.

Ma se Socrate afferma che sono due oggetti in sé, perché l'uno dovrebbe meritare rispetto all'altro?

Dove io traggo piacere, dovrebbe essere dove l'uno dovrebbe "vincere" rispetto all'altro. I beni e i mali non sono inferiori l'uno all'altro, semplicemente non esistono nelle azioni dell'uomo.

Esistono in categorie imposte all'uomo. Socrate decide che chi fa del male a Socrate fa il Male e chi fa del bene a Socrate fa il Bene.

Il bene e il male sta nel piacere di Socrate, non nelle azioni degli uomini. E dal momento che il bene e il male non esistono, ma esiste solo il piacere che un soggetto trae dalle sue azioni, ne segue che la virtù, come afferma Protagora va insegnata affinché si possa trarre piacere dalla compartecipazione sociale anziché trarre piacere dal dominio oligarchico della società o dalle torture e dalle rapine messe in atto da Crizia contro i cittadini Ateniesi.

Possiamo dire che la virtù, che porta i cittadini a compiacersi della compartecipazione alla vita politica di Atene in una democrazia, comporta piaceri e beni maggiori che non le attività di rapina o di rapinati proposte da Crizia?

L'uomo non fa mai ciò che è doloroso se non per fermare un dolore maggiore. L'uomo e le donne fanno ciò che dà loro piacere anche quando il piacere può, in linea ipotetica, portare al dolore anche se, mai il piacere porta al dolore. Semmai sono le condizioni modificate che portano al dolore (l'amore che ci dava piacere e ci abbandona, porta ad una condizione di dolore, ma non il piacere che provavamo con lui).

Il piacere ha valore, il dolore è negazione dell'uomo e della sua vita.

Come può Socrate/Platone imporre all'uomo la ricerca del dolore e la rinuncia del piacere? L'oligarca, il tiranno, per poter dominare l'uomo deve impedire all'uomo la ricerca del piacere. Deve far sì che il suo sottoposto cerchi il dolore e la sofferenza che lo costringa a rimanere sottoposto affinché lui possa provare piacere nel dominarlo.

Ed ecco la grande pensata di Socrate/Platone, portare l'uomo a differire la ricerca del piacere perché la condizione del dolore gli procurerà un piacere maggiore dopo morto (o alla sua anima).

Io prendo i piaceri e i dolori, li pongo su una bilancia e il più piccolo dei piaceri è prevalente sui dolori sia oggi, ora, adesso, che oltre la morte del corpo fisico. Ed è proprio perché io ricerco il piacere, oggi ora, migliorando le mie condizioni di vita attraverso le quali miglioro le condizioni di vita della società nel cercare il piacere ora, che avrò un piacere ancora maggiore domani.

Io scelgo piaceri e piaceri, non tanto perché devo necessariamente provare piaceri più intensi, ma perché la vita è piacere e rifiuto del dolore sia per me che per l'intera società.

Se vivo una condizione dolorosa, in quella condizione, sarò sempre alla ricerca del piacere anche se quel piacere consisterà in un dolore meno intenso o il superamento di quel dolore.

Per favore, se tu scegli il dolore, sceglilo per te stesso, sceglilo per l'oligarca, il tiranno e che soffra chi pretende di essere il dio padrone, ma evitiamo di diffondere dolore e sofferenza per distruggere il cammino degli uomini.

Epicuro, nella lettera a Meneceo, è chiaro.

Il dolore deve essere negato. Non si può costruire il dualismo fra dolore e piacere al di fuori dell'esistenza e l'esistenza non prevede il dolore se non come costrizione di situazioni imposte dall'oggettività in cui il soggetto vive. Il dolore imposto è sempre imposto da un atto criminale.

L'oligarca, il tiranno, prova piacere nell'imporre il dolore alle persone per poterle dominare, ma le persone agiscono contro l'oligarca e il tiranno per costruire condizioni oggettive diverse per uscire dalla condizione che percepiscono come dolorosa.

Il dolore non è una condizione da prendere in considerazione mentre il piacere, come buone condizioni di vita, è la condizione auspicabile da parte di un'umanità in cui la virtù viene insegnata per coltivare il piacere nell'esistenza.

L'agire bene, a differenza di quanto afferma Socrate/Platone, consiste nel fare cose che ci portino il bene e il piacere nella nostra vita. Che queste cose siano grandi o piccole, è irrilevante, dipende dalle nostre condizioni e da come noi ci collochiamo nella società. Tutto quello che facciamo è grande perché è il massimo che noi possiamo fare date le condizioni nelle quali viviamo.

 

Il concetto di salvezza in Platone

A questo punto Socrate/Platone introduce un nuovo parametro su cui discutere:

Se dunque l'agir bene per noi consistesse in questo, ossia nel scegliere e nel fare le cose che sono di dimensioni più grandi e nell' evitare e nel non fare quelle che sono di dimensioni più piccole, in tal caso da che cosa dipenderebbe la salvezza della nostra vita?

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In che cosa consisterebbe, la nostra salvezza?

Da che cosa io mi dovrei salvare?

Dal momento che io ho agito nella mia vita nella ricerca del piacere e ho costruito delle relazioni in cui c'era la ricerca del piacere reciproco, da che cosa mi dovrei salvare? E' il piacere stesso che mi porta alla salvezza, io sono salvo perché ho cercato il piacere anche quando le condizioni oggettive, l'oligarca di turno o il dittatore, mi costruiva delle pessime condizioni d'esistenza.

Il piacere rende la mia psiche tranquilla. La mia struttura emotiva vive condizioni di benessere anche nella ricerca di continuo benessere.

E' chi vive nel dolore o impone dolore, come fa Socrate/Platone, che deve distruggere la società in cui vive, annientare i cittadini di Atene per derubarli. Costoro sono spiriti inquieti ammalati di delirio di onnipotenza. Il loro unico piacere consiste nel far del male alle persone aiutando la tirannia a perseguitarle.

Perché misurare? Il piacere non ha misura, il piacere trasforma continuamente me stesso e la ricerca del piacere è l'arte nella quale esercito l'intelligenza. La vita non si misura, si vive.

Nella vita l'opzione del "se", come afferma Socrate/Platone, non esiste. La vita è ricerca del piacere: punto. Il piacere trasforma l'uomo che vive portandolo all'eternità.

Il se di Socrate/Platone è il "se" del dominatore che mettendo il dubbio esistenziale nelle strutture psicologiche fragili tende a fissare il suo dominio su esse.

Possiamo dire che quello di Protagora è il sofismo "buono", quello che ritiene che le persone possano essere dei cittadini migliori, istruiti e consapevoli, e trarre vantaggio e piacere nell'essere dei cittadini migliori; quello di Socrate/Platone è il sofismo "cattivo", quello che impedendo ai cittadini l'istruzione della virtù li si possa dominare e sottomettere più facilmente.

Non si misura la vita con una formula matematica. Non si rinchiudono nei numeri i piaceri che si cercano e la vita non è un calcolo del più o del meno. L'uomo vive, cerca il benessere e il piacere date le condizioni in cui vive. L'oligarca, il tiranno, il dio padrone misurano le attività dei loro schiavi. Le misurano e le soppesano per poterli dominare. Dal momento che l'oligarca e il tiranno non vivono né cercano un piacere diverso che non quello che ottengono col dominio, per dominare le persone devono misurare tutto. Non solo il grado del loro godimento, le ore che passano con le prostitute, ma quanti soldi versano per la prestazione e quali effetti ha la prestazione sui loro schiavi.

E' il dominatore, il padrone che cerca di misurare perdite e profitti nelle relazioni con i suoi schiavi, non gli schiavi a cui è sottratto il valore del loro tempo e, dunque, anche il valore del loro piacere.

Per ridurre gli uomini in schiavitù, Socrate afferma che esiste una "salvezza".

Scrive Platone nel Protagora facendolo dire a Socrate:

«"Ebbene, amici! Poiché la salvezza della nostra vita ci risultò consistere nella corretta scelta del piacere e del dolore, del più e del meno grande, del più e del meno intenso, del più lontano e del più vicino, non è forse evidente, innanzi tutto, che non può non essere una capacità di misurare, dal momento che si tratta di una ricerca riguardante l'eccesso e il difetto e l'uguaglianza reciproca?"».
«Necessariamente».
«"E poiché è una capacità di misurare, è necessario che sia un'arte e una scienza».

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La scienza che costruisce lo schiavismo mediante l'imposizione del dolore. La scienza che allontana l'uomo dalla ricerca del piacere costringendolo a distruggere la sua vita.

L'arte e la scienza che Socrate vuole imporre è la sottomissione dell'uomo a preconcetti esistenziali che, allontanandolo dalla ricerca del piacere, lo allontanano dall'esprimere la virtù del proprio esistere per supplicare la virtù mediante una ricerca del dolore.

Socrate sbaglia per mancanza di scienza: per ignoranza. Non cercare il piacere nell'esistenza è una predisposizione psicologica prodotta dall'imposizione dell'ignoranza dove la scienza, della ricerca del piacere, è stata negata all'uomo come è stata negato l'insegnamento della virtù.

Rifiutare la ricerca del benessere e del piacere è la massima espressione dell'ignoranza a cui un ragazzo è stato costretto negandogli, di fatto, l'insegnamento della virtù e di tutti quegli strumenti con cui poteva usare la virtù per il proprio profitto esistenziale.

Esattamente come i cristiani che travolti dalla bramosia violentano i bambini e bambine perché la loro ignoranza nella virtù è assoluta e si identificano con gli oligarchi e i tiranni. Invece, se avessero seguito i suggerimenti di Protagora, avrebbero imparato la virtù del come ci si relaziona con l'altro, il valore delle persone e la ricerca del piacere mediante le relazioni reciproche e non avrebbero violentato bambini e bambine.

 

Protagora e Socrate

A questo punto vale la pena di rivolgere a Socrate le stesse parole che Socrate rivolge a Protagora:

E il nostro Protagora afferma di essere proprio il medico che sa guarire questa ignoranza, e così anche Prodico e Ippia. Ma voi, credendo che sia altro dall'ignoranza, non andate e non mandate i vostri figli dai maestri di queste cose, che sono appunto i Sofisti qui presenti, convinti che non si tratti di cose insegnabili, e, per attaccamento al vostro danaro, non lo date a costoro, e così vi comportate male sia nel vostro interesse sia nell' interesse pubblico".

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Non mandate i ragazzi da quelli come Socrate, non insegnerà loro che il dolore e col dolore insegnerà loro a dominare gli altri anziché a vivere con onore la loro vita.

Per finire questo commento, vale un'altra riposta a Socrate quando, rivolto a Protagora afferma:

«Come, Protagora - dissi allora - non rispondi né sì né no a quello che ti domando?».
«Concludi da solo», rispose.
«Certo - dissi -, ma dopo averti domandato una sola cosa ancora, ossia se credi anche ora, come prima, che ci siano uomini ignorantissimi ma coraggiosissimi».

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Tutti gli uomini sono coraggiosi perché, che piaccia o meno a Socrate, tutti gli uomini, a differenza di Socrate, affrontano la loro vita risolvendo i problemi che di volta in volta la vita presenta loro anche quando a presentarli sono tiranni e oligarchi o, ancora, il dio padrone di Socrate.

Tanto per precisare, ci sono uomini, e sono la maggioranza, meno acculturati di un docente universitario che affrontano il mare su dei gommoni, spesso morendo in mare per alimentare una speranza di vita.

Sì, tutti gli uomini, meno Socrate, sono coraggiosissimi perché affrontano le condizioni della loro vita. Socrate preferisce fuggire dalla vita bevendo la cicuta. Socrate si è comportato da vigliacco con Protagora, così si è comportato da vigliacco con la sua stessa vita.

Marghera, 05 novembre 2016

NOTA: Il testo citato è:

Platone, Tutti gli scritti Editore Bompiani 2000/2014 a cura di Giovanni Reale, in particolare il Protagora è tradotto e annotato da Giovanni Reale.

Il numero delle pagine, sotto le citazioni, corrispondono a questa edizione.

 

 

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Marghera, 09 luglio 2017

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

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La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.