Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 - 1900)

Il dionisiaco e l'apollineo nella nascita della tragedia

di Claudio Simeoni

 

Cod. ISBN 9788891185808

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre (alle pagine sulla Nascita della Tragedia)

Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre

 

Il dionisiaco e apollineo in Nietzsche

 

Nietzsche si rende conto che c'è qualche cosa che non quadra nei comportamenti umani. C'è poco di parlare di ragione quando i cambiamenti avvengono per violenza e per furore emotivo. La ragione descrive gli effetti del furore emotivo ma non ne è né l'origine né il fine.

C'è un altro uomo al di sotto dell'uomo razionale; ci sono comportamenti che hanno modificato il corso della storia e che non possono essere annoverati fra i comportamenti ragionevoli o, comunque, le ragioni adottate per spiegarli non sono sufficienti.

La musica eccita gli animi, o l'eccitazione degli animi è descritta dalla musica?

La quotidianità, l'abitudinarietà, l'omologazione descrittiva dell'esistenza,viene spezzata da moti di spirito che nulla hanno di razionale. Il popolo, questa massa informe e priva di individualità appassionate si erge a monoblocco nebbioso davanti agli occhi del filosofo, del teologo, della religione col suo dio padrone.

Il popolo!

Una bocca che si riempie di uomini e donne pronti per essere masticati, ingurgitati, digeriti.

Il popolo diviso in massa informe, ha in Platone il suo artefice, in Mose il suo carnefice, in Gesù e Buddha gli allevatori di un gregge che viene portato al macello della vita.

Il popolo si ribella in massa. Il popolo si sottomette in massa. Il popolo accorre al richiamo del re. Il popolo abbatte il re. Il popolo è massa, gregge che va verso un destino di distruzione sia quando riafferma sé stesso e viene macellato, sia quando sottomesso attende l'inesorabile fine a cui singolarmente ogni uomo giunge.

Il filosofo, come si dipinge il popolo?

Il filosofo si dipinge il popolo come una massa informe ed egli si identifica col dio padrone che sta davanti a questa massa informe e giudica la massa informe. Ogni padrone di popolo è un dio padrone che si erge davanti al popolo che gli appare come una massa informe pronta a seguire questo o quel dio padrone.

Questo popolo, addestrato fin dalla pancia della madre, in ogni singolo individuo con una meticolosità oltre ogni inimmaginabile parossismo alla sottomissione e all'obbedienza è composto da una massa di individui che sono stati costretti ad uno stato apparente di sottomissione perché le loro pulsioni sono state costrette a dirigersi verso il basso. Il loro potere di distruzione viene esercitato verso un altro individuo più emarginato di loro sul quale esercitano il loro dominio. Un intreccio microscopico di relazioni emotive di dominio intesse una tela sociale di negazione pulsionale che appare al filosofo, allo statista, al politico, come una massa informe dalla quale, di tanto in tanto, emerge una luce di ribellione. Lui, uomo dio padrone di uomini, ogni tanto scorge un concorrente che sfida il suo potere, la sua autorità, il suo dominio.

Il filosofo non si ritiene un uomo della "massa", ma un uomo al di fuori della massa. E' in quest'ottica che Nietzsche si pone davanti alla vita. In fondo, Nietzsche conosce le sue pulsioni, ma è sordo alle pulsioni delle persone che ritiene massa. Queste persone che lui ritiene popolo si rappresentano davanti alla sua percezione come un insieme statico in cui i suoi occhi annullano le pulsioni di sé stesso e le trasformazioni che il sé stesso ha subito per non distinguere che in quella massa da ogni singolo individuo di quella massa pulsioni simili giungono a lui. Lui ha le pulsioni; la massa è fatta da individui che non hanno pulsioni distinguibili dall'insieme, dunque, sono massa.

Scrive Nietzsche:

Anzi si dovrebbe poter dimostrare anche storicamente che ogni periodo di ricca produzione di canti popolari è stato agitato violentemente da correnti dionisiache, che noi dobbiamo sempre considerare come sfondo e presupposto del canto popolare. Ma questo canto presenta per noi l'immediato valore d'uno specchio musicale del mondo, d'una melodia primordiale alla ricerca d'una visione onirica che le sia parallela e che essa esprime in poesia. La melodia è dunque il fatto primo e generale che per questa ragione può comportare parecchie obiettivazioni in testi diversi. Essa è anche la cosa di gran lunga più importante e più necessaria nella stima ingenua del popolo. La melodia partorisce la poesia, e non una volta, ma sempre e sempre; niente altro che questo significa per noi la forma strofica del canto popolare: un fenomeno che mi ha sempre riempito di stupore fino a quando non ne ho trovato questa spiegazione da ultimo. Chi consideri alla luce di una tale teoria una raccolta di canti popolari, come per esempio quella del Knabes Wunderhom, troverà innumerevoli esempi del continuo scintillio di immagini che la melodia, sempre feconda, genera e sprizza intorno; immagini che nel loro rapidissimo mutarsi, nel loro reciproco incalzarsi manifestano un'energia del tutto estranea alla visione epica e al suo tranquillo procedimento. Dal punto di vista dell'epica, il corpo fantastico irregolare e ineguale della lirica, è semplicemente da condannare: ed è quello che certamente hanno fatto all'epoca di Terpandro i solenni rapsodi epici delle feste apollinee. Nella poesia del canto popolare noi vediamo dunque la lingua tendersi fino all'estremo limite nell'imitazione della musica: ragione questa per cui si inizia con Archiloco un nuovo mondo della poesia che contrasta nelle sue componenti più profonde con quello omerico. Così noi abbiamo determinato l'unico rapporto possibile tra poesia e musica, suono e parola: la parola, l'immagine, il concetto cercano un'espressione analoga alla musica e subiscono allora la violenza della musica. In questo senso noi dovremmo distinguere nella storia linguistica di un popolo due correnti principali, secondo che la lingua imitasse il mondo dell'apparenza e delle immagini oppure il mondo della musica. Per capire l'importanza di questo contrasto si rifletta profondamente sulla differenza linguistica del colore, della costruzione sintattica, del lessico in Omero e in Pindaro; e ognuno si renderà chiaramente conto che fra Omero e Pindaro devono aver risuonato le modulazioni del flauto orgiastico dell'Olimpo, che ancora al tempo di Aristotele, in seno ad una musica infinitamente più sviluppata, suscitava un entusiasmo ebbro, e certamente nella loro primitiva efficacia hanno sospinto all'imitazione tutti i mezzi d'espressione poetica dei contemporanei. A questo punto ricordo un ben noto fenomeno dei nostri giorni che solo apparentemente urta contro la nostra estetica. Ogni giorno facciamo l'esperienza che una sinfonia di Beethoven obbliga gli ascoltatori a discuterne per immagini, anche se è vero che l'accostamento dei mondi d'immagini suscitati da un brano musicale si presenta straordinariamente vario e perfino contraddittorio: ed è proprio nel gusto estetico di quegli ascoltatori esercitare il loro povero giudizio su tali accostamenti piuttosto che sul fenomeno veramente degno d'osservazione. Anche quando il musicista ha intitolato le sue opere per via di immaginazione, quando per esempio ha dato ad una sinfonia il titolo di pastorale ed ha indicato un brano come «Scena presso un ruscello», e un altro «Lieta riunione di contadini», non si hanno parimenti altro che rappresentazioni allegoriche nate dalla musica e non oggetti che la musica si sia proposta di imitare; rappresentazioni che non ci possono affatto istruire sul contenuto dionisiaco della musica e che non hanno nessun valore esecutivo in rapporto ad altre immagini. Questo processo per cui la musica si scarica in immagini, dobbiamo ora trasportarlo a una riunione di popolo giovane, fresco, linguisticamente creativo, per arrivare all'idea di come nasca il canto popolare strofico, e di come tutta la potenza della lingua venga eccitata da questo nuovo principio che consiste nell'imitazione della musica.

Da pag. 44 a pag. 45

La musica, priva di parole, suscita emozioni senza oggetto e senza relazioni con oggetti del mondo. La musica alimenta l'immaginazione emotiva e si esprime in quella che Nietzsche ritiene una volontà di rappresentazione in sé stessa.

La musica è suono. Non ci sono parole che descrivono e nel suono si suscitano emozioni rispetto al mondo. La struttura emotiva dell'uomo è eccitata e pronta per riversare l'eccitazione emotiva nel mondo al di là della veicolazione in cui quel riversare avviene.

I canti popolari di lotta colpiscono Nietzsche. Questo popolo bue si eccita nella musica e si riversa, con i suoi canti in una visione orgiastica dell'esistenza, spezzando la morale, i valori sociali e i tabù imposti.

La musica si esprime come volontà e l'espressione musicale, fondendosi con la poesia, si carica di immagini. In questa ricerca del mondo della musica privato delle immagini sta la ricerca ossessiva di Nietzsche per cui tutto diventa superfluo se non è ricondotto allo stadio emotivo che la musica evoca da sola.

Nietzsche sa perfettamente che da sola la volontà si esprime in meandri emotivi in cui non riesce ad afferrare nessun significato razionale e allora, quanto emerge come respiro emotivo attraverso la musica, viene rivestito di parole, di forma, di immagini. Non è solo la poesia, ma la danza che trasporta l'impulso emotivo all'interno di una lettura razionale.

Mentre il delirante Dioniso rappresenta in Nietzsche la volontà della vita che si esprime in sé stessa senza i legacci sociali e morali, il trionfatore Apollo diventa in Nietzsche l'anti Dioniso. Un anti-Dioniso che consente a Dioniso di esprimersi al di fuori del delirio. Permette a Dioniso di essere accolto in quanto la sua rappresentazione avviene nella tragedia, nella poesia, nel coro, nella forma e nella danza.

Apollo dà forma a Dioniso!

Scrive Nietzsche:

Poiché ci è consentito di considerare la lirica come una folgorazione imitativa della musica in immagini e concetti, possiamo ora domandarci: come appare la musica nello specchio dell'immaginativa e dei concetti? Appare come volontà, presa la parola nel senso datole da Schopenhauer, vale a dire come il contrario della disposizione estetica puramente contemplativa e scevra di volontà. E qui bisogna distinguere nel modo più netto il concetto di essenza da quello di apparenza: poiché la musica, secondo la sua essenza, non può essere volontà, dovendosi come tale bandirla totalmente dal campo dell'arte, dato che la volontà non è assolutamente un fatto estetico; essa però appare come volontà. Infatti, per esprimere in immagini l'apparenza della musica, il lirico ha bisogno di tutti i moti della passione, dal sussurro della tenerezza fino all'urlo della follia; stimolato dall'istinto di parlare della musica in simboli apollinei, egli comprende tutta la natura, e se stesso nella natura, come l'eterno volere, desiderio, anelito. Ma, in quanto interpreta la musica in immagini, riposa egli stesso tranquillo nel calmo oceano della contemplazione apollinea, e non importa poi che intorno a lui tutto ciò che contempla attraverso il medium della musica è agitato e messo in grande fermento. Anzi, se attraverso quel medium guarda se stesso, gli si mostra la sua propria immaginazione in uno stato d'inquietudine sentimentale; la sua volontà, il suo desiderio, i suoi sospiri, le sue grida di gioia sono simboli con cui interpreta la musica. Tale è il fenomeno del lirico: come genio apollineo interpreta la musica attraverso l'immagine della volontà, mentre egli stesso, completamente sciolto dall'avidità del volere, è un occhio solare puro e imperturbato.

Tutta questa disanima mette in chiaro che la lirica dipende dallo spirito della musica, in quanto la musica, nella sua perfetta illimitatezza, non avendo bisogno dell'immagine e del concetto, la tollera accanto a sé. La poesia del lirico non può dunque esprimere nulla che nella sua prodigiosa universalità e versatilità non fosse già nella musica, la quale appunto ha costretto il lirico ad esprimersi per immagini. Precisamente perciò il simbolismo universale della musica non si può in nessun modo esaurire con la parola, perché questa risale simbolicamente al contrasto e al dolore primordiale nel cuore dell'uno primigenio, sicché simboleggia una sfera che è al di sopra di ogni apparenza e anteriore ad ogni apparenza. Rispetto ad essa ogni apparenza anzi è soltanto un simbolo: e da questo deriva che la parola, come organo e simbolo delle parvenze, non giunge mai a tradurre al di fuori la più profonda intimità della musica, rimane sempre nei limiti di un contatto esteriore con la musica, laddove il senso più profondo di questa non può esserci portato più vicino di un passo da tutta quanta l'eloquenza lirica.

Pag. 45-46

La musica delirante di Dioniso si trasforma in musica di concetti e di immagini di Apollo.

Apollo sta a Dioniso come la forma sta alla volontà.

La forma di Apollo esprime la volontà di Dioniso all'interno di una comprensione che viene socializzata.

La musica non è volontà perché, dice Nietzsche, la volontà non è estetica, ma la musica si presenta come volontà e, dunque, presenta Dioniso nel consesso umano. Il lirico, per presentare l'apparenza della musica, ha bisogno di tutti i moti dello spirito, di tutte le passioni che vengono espresse dalla volontà. Attraverso la volontà, nella quale si esprimono le tensioni emotive, l'individuo entra in contatto con le pulsioni emotive della natura. La musica, in assenza di parole, diventa il medium fra le emozioni che si esprimono nell'individuo e che vengono evocate dalla musica e la loro rappresentazione nell'arte e nella società attraverso l'Apollo che si esprime mostrando la propria immaginazione in un'inquietudine sentimentale rivelata dalle sue pulsioni emotive.

La volontà di Dioniso viene rappresentata esteticamente con l'immagine della volontà in cui le parole del poeta, le immagini dello scultore e del pittore, rappresentano nella forma la musica. La musica non ha bisogno delle parole o della rappresentazione, ma la rappresentazione acquista un senso emotivo attraverso la musica.

Secondo Nietzsche la musica non si può esaurire con la parola, non può essere circoscritta dalla parola, in quanto la musica è riferibile al dolore primordiale dell'uno primigenio e simboleggerebbe una "sfera" che è al di là di ogni apparenza e anteriore ad ogni appartenenza.

Come un incauto sognatore Nietzsche immagina che il rapimento nel delirio provocato dalla musica, l'attimo fuggente in cui è esplosa quella singola emozione che ha costruito un'unità illuminante della sua emozione che in quel momento si è presentata alla coscienza, possa essere un momento che si possa espandere all'infinito in una gloria rappresentabile allo stesso modo in cui i re e gli eroi si rappresentano nella ragione.

Nel momento stesso in cui l'emozione si è presentata alla sua coscienza è si è presentato un altro Nietzsche che ha aperto al Nietzsche razionale una porta sull'universo. E' bella l'immagine di Apollo mentre tende vigoroso il suo arco verso un infinito immaginato, ma il Dioniso, che Nietzsche ha intravisto nel momento in cui l'emozione affiorante ha acceso di possibilità la sua coscienza, gli ha aperto un mondo di possibilità in cui il delirio soggettivo non era frenato da nessun Socrate e da nessun Platone che si ergevano a suoi padroni.

In quell'attimo della percezione Nietzsche immagina che le Baccanti abbiano vissuto perennemente in quello stato psichico. Uno stato psichico capace di trasmettere all'individuo una sorta di potenza, di superiorità, rispetto ad un'omologazione nella massa degli individui del suo presente.

La lirica dipende dallo spirito della musica.

E' come dire che la società dipende dalle pulsioni dei singoli individui che la compongono. Come gli individui affrontano la vita e la loro quotidianità, così regolano la società nella quale abitano. In Nietzsche l'uomo è un Apollo che veicola nella società il Dioniso dentro di lui. Un Apollo imprigionato dal demone di Socrate che viene trasformato in schiavo e che solo il Dioniso dentro di lui, quando esplode in tutta la sua volontà, esprime quella musica della vita capace di sciogliere Apollo dalle catene della schiavitù e della sottomissione.

Scrive Nietzsche:

Se non che, questo mondo non è un mondo arbitrariamente collocato dalla fantasia fra cielo e terra; è invece un mondo altrettanto reale e credibile quanto per i Greci credenti l'Olimpo con tutti i suoi abitanti. Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto. Che la tragedia si inizi con esso, che da esso parli la saggezza dionisiaca della tragedia, è per noi un fenomeno tanto singolare quanto il vedere la tragedia nascere dal coro. Forse conquisteremo un buon punto di partenza per le nostre riflessioni, se qui pongo l'affermazione che il satiro, l'essere naturale fittizio, sta all'uomo incivilito come la musica dionisiaca sta alla civiltà. Di questa, Richard Wagner dice che è dispersa dalla musica come la luce di una lampada è dispersa dal giorno. Io credo che allo stesso modo il greco incivilito si sentì annullato in presenza del coro dei satiri; ed è questo l'effetto più immediato della tragedia dionisiaca: stato e società, e in generale tutto quello che separa uomo da uomo, cedono di fronte ad uno strapotente senso d'unità che riconduce tutti al seno profondo della natura. Il conforto metafisico che qui accenno, che lascia in noi ogni vera tragedia, il conforto di sentire la vita, nonostante ogni mutare di fenomeni, come qualcosa di indistruttibilmente possente e gioioso, ci appare con corporea evidenza nel coro dei satiri, in quanto coro di esseri naturali che vivono per così dire indistruttibili dietro ogni civiltà, e che, ad onta di ogni nuovo mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.

Con questo coro si consola l'anima profonda del greco, più delicato e più sensibile al dolore di ogni altro; con occhio acuto egli vede il terribile spirito di annientamento della cosiddetta storia universale e la crudeltà della natura ed è messo sul punto di desiderare un annientamento buddista della volontà. Lo salva l'arte, e per mezzo dell'arte la vita salva lui.

L'estasi dello stato dionisiaco, abolendo le abituali barriere e i confini della vita, ha un fattore letargico in sé per tutta la sua durata, fattore in cui va sommerso tutto quello che è stato individualmente vissuto nel passato, e questo abisso d'oblio scinde il mondo d'ogni giorno dalla realtà dionisiaca. Ma non appena la realtà giornaliera riaffiora alla coscienza, viene sentita con disgusto per quello che è inrealtà: una disposizione ascetica dell'animo a negare la volontà è il frutto di quella circostanza. In questo senso l'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato un giorno uno sguardo lucido alla realtà delle cose, e ormai provano ripugnanza all azione; poiché la loro azione non può mutar nulla dell'eterna sostanza delle cose, sentono che è ridicolo o insultante che si chieda loro di rimettere a posto un mondo uscito dai cardini. La conoscenza uccide l'azione, all'azione soccorre il velo dell'illusione: questo è l'insegnamento di Amleto, e non la saggezza a buon mercato del sognatore, che per troppo riflettere, quasi per eccesso di possibilità, non giunge mai all'azione; non la riflessione - no! - ma la vera conoscenza, la vista dell'orribile verità soffoca ogni motivo che spinge all'azione, tanto in Amleto quanto nell'uomo dionisiaco. Allora il conforto non ha più presa; il desiderio si lancia di là da un mondo verso la morte, di là degli stessi dei, l'esistenza è negata e con questa anche il suo splendido rispecchiarsi nella vita degli dei o in un aldilà immortale. Nella consapevolezza della verità, ormai rivelata al suo sguardo, l'uomo non vede, ovunque si volga, che lo spavento o l'assurdo dell'esistenza, adesso comprende il senso simbolico del destino di Ofelia, capisce la saggezza del dio silvestre Sileno: tutto è per lui disgusto. Ed ecco che, in questo pericolo estremo della volontà, compare l'arte, la maga che viene per salvare e guarire; essa sola ha il potere di trasformare il disgusto per tutta la terribilità o l'assurdo dell'esistenza in rappresentazioni che consentono di vivere: queste rappresentazioni formano il sublime, considerato come addomesticamento artistico del terribile, e il comico come sfogo artistico dell'assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo è il fatto liberatore dell'arte greca; è il mondo mediatore di compagni di Dioniso contro cui si spensero gli assalti di disperazione finora descritti.

Così il satiro come il pastore dell'idillio moderno sono entrambi figli di una nostalgia che si rivolge al primitivo e al naturale; ma con quale presa salda e intrepida il greco afferrò il suo uomo silvestre, e con quale timida mollezza invece l'uomo moderno si balocca con l'immagine carezzosa del delicato pastorello suonatore di flauto! La natura non ancora toccata dalla conoscenza, a cui non sono ancora state aperte le porte della civiltà, così la videro i Greci nel loro satiro, che perciò non ha niente in comune con la scimmia.

Pag. 49 -50

Il mondo di Dioniso è un mondo reale. Tanto reale da essere il mondo da cui scaturisce il mondo razionale che Nietzsche vorrebbe chiamare "apollineo" ma che è costretto a vedere imprigionato dall'ideologia di dominio di Platone e Socrate. Dalla loro morale trasferita attraverso Buddha e Gesù nelle regole sociali.

Nietzsche non si rende conto che il mondo di Dioniso è una fonte da cui sgorga la vita e non esiste strada o via per tornare in quel mondo. Si può usare l'acqua zampillante per elaborare una forma sociale, un futuro sociale dell'uomo o di una collettività in cui l'uomo vive trasferendovi le proprie emozioni. Il mondo di Dioniso, il mondo emotivo, ci avvolge in un dentro e in un fuori di noi che terrorizza la nostra ragione.

Ci avvolge in un dentro e fuori che terrorizza Platone e Socrate al punto da costringerli ad elaborare un'ideologia che espropri l'uomo della sua fonte divina attribuendo le pulsioni di vita ad oggetti esterni; l'anima e il demone, sui quali l'uomo non avrebbe nessun controllo. L'azione della distruzione dell'azione dell'Apollo, di tutti gli Dèi Olimpi e dei Titani dentro l'uomo è l'attività distruttiva messa in atto da Platone e Socrate e fatta propria dai cristiani e dai buddhisti che facevano dell'uomo uno schiavo sottomesso: schiavo nella distruzione karmica nel buddismo, schiavo del dio padrone nel cristianesimo, schiavo nella società ideale di Platone quella Repubblica che relegava l'uomo allo stato di schiavo per servire i filosofi con cui lui si identificava.

Il satiro è l'immagine dell'emozione che si fa azione.

Che cosa immagina Nietzsche quando con la sua mente evoca il Satiro? Quali sono i bisogni che ha Nietzsche, che sentendo negati proietta sull'immagine del Satiro? Forse, dice Nietzsche, potremmo chiarire le nostre riflessioni se affermo che il satiro, una sorta di essere naturale immaginario, sta all'uomo civile di oggi come la musica dionisiaca sta alla nostra civiltà. Per Nietzsche il satiro è altro dalla società civile come la musica delle emozioni è altro dalla civiltà. Il Satiro è' una costruzione immaginata nella quale veicolare la struttura pulsionale che Nietzsche percepisce come frenata o ingabbiata dalla civiltà in cui vive.

Lo struggimento di Nietzsche è quello di non sentire il dispiegarsi della vita, ma di cogliere soltanto scintille che proietta in un assoluto rappresentato dal coro dei satiri che, a differenza di Nietzsche, nel suo immaginario, riescono a superare il momento dell'illuminazione per vivere nella luce perenne di una percezione della vita indistruttibilmente possente e gioiosa. I satiri rappresentano la forma di questo desiderio realizzato, un coro di esseri naturali che vivono il loro stato di indistruttibilità e che, nonostante che generazioni e popoli attraversino la storia nascendo e scomparendo, rimangono eternamente sé stessi.

Nietzsche immaginando il Satiro ci dipinge la sua idea di superuomo o oltre-uomo. La potenza sessuale ed emotiva che attraversa la storia in un coro di esistenze che si fanno coro, popolo, indistruttibile ed eternamente sé stesso.

Come può un simile soggetto vedere il terribile spirito di annientamento della così detta storia universale e la crudeltà della natura? Come può il Satiro o l'uomo greco aspirare all'annientamento? Nietzsche afferma che l'arte salva l'uomo greco dall'annientamento, ma l'arte greca è rappresentazione dell'uomo trionfante. L'uomo che non ha nessuna idea di annientamento. Ha l'idea della trasformazione, ma non dell'annientamento né di sé stesso, né di sé stesso come civiltà.

La volontà che esprime le emozioni non è portatrice di dolore. Quando la volontà esprime le emozioni non possono essere espresse creando dolore nell'uomo. L'uomo vive il dolore solo quando non veicola la propria volontà. Dioniso non prova dolore. Quando proverebbe dolore? Quando è dilaniato dai Titani? Dai Titani non è torturato: i Titani non si soffermano sulla sua sofferenza, i Titani lo fanno a pezzi. In questo stato non c'è dolore. Il dolore è tale solo quando la struttura emotiva dell'uomo non è in grado di esprimersi, Quando il Dioniso che cresce dentro l'uomo non è in grado di esprimersi nel mondo: allora o imbraccia il tirso o prova il dolore dell'annientamento emotivo. Il dolore c'è solo quando la vita dell'uomo è sospesa fra una prospettiva di annientamento e l'impossibilità di usare la propria volontà per esprimere le proprie pulsioni emotive. Socrate, Platone, Gesù, il Buddha hanno elaborato teorie ideologiche e ideali per mantenere l'uomo in quello stato, per poterlo allevare come un animale che serve un padrone nutrendosi della sua stessa sofferenza.

Cosa succede quando si aboliscono le abitudini e i confini razionali della vita? E' una domanda che Nietzsche si deve porre, ma anziché porsela, preferisce esprimere il giudizio in una risposta che rappresenta l'idea di che cosa succederebbe se lui, nel suo stato emotivo e nel suo vissuto, abolirebbe le abituali barriere e i confini della vita che pensa. Affinché il Dioniso dentro di noi viva in una situazione letargica, sarebbe necessario che il Dioniso dentro di noi fosse creato da un dio padrone. Fosse espressione di un'anima che ritorna al dio padrone e non fosse una qualità della materia organizzata per esprimere me stesso o l'individuo stesso. Come quella materia è stata costruita giorno dopo giorno crescendo; come quella psiche si è forgiata scelta dopo scelta nelle condizioni oggettive in cui ha operato; quel Dioniso dentro di noi lo abbiamo costruito azione dopo azione in relazione a ciò che nel mondo individuavamo come oggetto di relazione soggettiva che, soggetto esso stesso (o soggetti essi stessi), ci costringevano a continui processi di adattamento soggettivo.

E' l'errore fondamentale di Nietzsche che non comprende: io sono ciò che ho costruito. Io ho costruito ciò che la società, la vita, la natura mi ha costretto o consentito di costruire attraverso i miei processi adattativi come risposta alle loro sollecitazioni nei miei confronti. Io rispondevo alla necessità di espandermi, di crescere, ma i processi emotivi, psichici e fisici adattavano la risposta e le azioni messe in essere nel mondo in funzione sia della mia sopravvivenza sia della mia necessità di crescita. La mia crescita era un patrimonio sociale e della Natura solo nella misura in cui le mie azioni nel mondo consentivano alla società e alla natura processi di trasformazione, adattamento e crescita.

Il Dioniso che cresce dentro di me è il Dioniso che io ho costruito vivendo. Tutto ciò che io, io inteso come attuale vita fisica, ho plasmato con le mie relazioni col mondo, hanno costruito il Dioniso che cresce dentro di me. Al contrario, il creazionista Nietzsche ritiene che quello che lui attribuisce al dionisiaco dentro di lui sia nascosto nell'oblio proprio dall'esperienza del suo vissuto. Mentre il Dioniso costruito dall'uomo che vive la vita con passione fonde la propria descrizione del mondo con quella della ragione rafforzando l'agire dell'uomo nel mondo, il Dioniso creato in Nietzsche viene annichilito dall'esperienza, allontanato dalla realtà vissuta fino a negare il coinvolgimento di Dioniso nella vita.

Facendo proprie le affermazioni di Schopenhauer, Nietzsche ritiene di negare la volontà desiderante mediante un ascetismo che costruisce la distruzione dell'uomo e della sua capacità di abitare il mondo. La realtà, la vita quotidiana viene sentita da Nietzsche con disgusto. La realtà non viene vissuta da Nietzsche con passione perché non rientra nella sua concezione della vita un mondo che si trasforma continuamente e in cui la sua volontà ha un ruolo nelle trasformazioni del mondo e nella trasformazione come costruzione di sé stesso nel mondo. Nietzsche descrivendosi come creato dal dio padrone, pur negandolo, ritiene di essere ciò che è e che il "Dioniso" dentro di lui è ciò che è; in ciò che è la volontà ha il solo scopo di negare di vivere appieno la realtà. Nietzsche, come i buddhisti, come Schopenhauer, come Platone e Socrate e i cristiani (il peccato e la caduta) vede l'uso della volontà solo come distruzione dell'uomo che vive e come separazione dell'uomo dalla società in cui vive.

Il dubbio di Amleto è la consapevolezza del proprio fallimento esistenziale, lo stesso per Nietzsche. Ha passioni dentro di lui che attribuisce ad un Dioniso e vede solo l'impotenza in quanto soggetto creato da dio che sogna una separazione fra sé e il mondo. Nietzsche ha avuto un attimo di illuminazione. Il Dioniso dentro di lui per un attimo ha squarciato la sua coscienza, ma anziché usare quell'attimo per dare l'assalto al cielo, Nietzsche si ritrae sognando quel Dioniso come l'assoluto della sua esistenza.

Non ha saputo usare quel Dioniso per interpretare la realtà in cui viveva, ha preferito annientarsi in una ricerca autodistruttiva in quell'idealizzazione di Dioniso e tale idealizzazione è diventata il contenitore in cui circoscrivere la veicolazione della sua percezione emotiva-dionisiaca. Non avendo portato il Dioniso che emergeva dentro di lui nelle contraddizioni del mondo e della vita lo ha violentato trasformando la sua espressione in un fenomeno della sua patologia psichiatrica. L'esternazione delirante della sua malattia. In questa malattia Nietzsche prova ripugnanza per l'azione. Per lui la forma della sostanza è eterna e immutabile, non riesce a vedere che è lui impotente e non riesce a cogliere la contraddizione che la sua impotenza nella vita lo costringe a fare come la volpe con l'uva: "Tanto è acerba!". Così Nietzsche: "Tanto è eterna e immutabile!". Certamente è ridicolo e insultante pretendere che qualcuno metta a posto le cose di un mondo che si percepisce come devastato dal momento che non esiste un modello di mondo se non nelle fantasie patologiche. Rinunciare all'azione significa fissare l'incapacità soggettiva di muoversi in un mondo che la rinuncia ci ha costretto a vedere come caos o disperazione. A Nietzsche non resta che sognare un Nirvana, un annullamento di sé stesso come annullamento della propria vita e della sua disperazione esistenziale.

La conoscenza non uccide l'azione, la conoscenza è costruita dal soggetto mediante la sua azione e il soggetto può continuare a costruire la propria conoscenza alzando il livello o gli obbiettivi dell'azione. Solo nell'ottica creazionista il conoscere, in quanto si conosce la verità manifestata, l'azione viene fermata in quella verità. Io sono la verità, dice Gesù. E quando tu, diventando schiavo, accetti la mia verità come conoscenza si ferma la tua azione per continuare a costruire la tua conoscenza e, con essa, una nuova e diversa verità. La verità di Gesù uccide l'azione che costruisce la conoscenza dell'uomo, esattamente come la "saggezza" di Socrate. Socrate non aggiunge nulla alla conoscenza degli uomini con cui va a discutere, al contrario, uccide la tensione verso la conoscenza umiliandone gli sforzi e le azioni che costruiscono il futuro.

La verità, quando si presenta come oggetto in sé, è sempre terribile perché non descrive il vero dell'oggettività nella quale si vive, ma descrive il "non-più-oltre" che quell'individuo non ha il coraggio di superare. Ed è terribile perché si erge a barriera di ogni sua nuova trasformazione. Amleto non è più in grado di vivere. Non ha nessuna verità, non ha nessuna conoscenza, non ha nessuna consapevolezza, ha solo ucciso il Dioniso che dentro di lui spingeva per emergere e giungere alla sua coscienza. Ora si rende conto che le parole non sono in grado di definire un mondo che percepisce come ostile e distruttivo rispetto ad una ragione fustigata e umiliata nel suo delirio di onnipotenza.

Ad Amleto non resta che la morte. Non la morte di Dioniso che dilaniato dai Titani è consapevole che Rea ed Apollo lo aiuteranno ad accedere ad una nuova e diversa vita, ma la morte intesa come distruzione di ogni possibilità consapevole di eternità. Non ci sono gli Dèi, gli immortali, ad accogliere Amleto o Nietzsche, c'è il Nirvana inteso come dissoluzione in cui l'individuo risolve il dolore del proprio fallimento esistenziale.

Nietzsche si abbandona al destino di Ofelia: la serva del padrone!

Il disgusto di Ofelia per la vita è il disgusto che prova per le cose che non si allineano alla morale di Socrate, di Platone o di Gesù. Lei che ha fatto della morale di sottomissione una regola in cui conchiudere la sua vita, vede le sue emozioni e le sue pulsioni negate proprio da quelle condizioni morali che ha elevato a modello esistenziale. Il suo suicidio non è altro che l'atto conclusivo di un suicidio che è venuto costruendosi fin dal momento in cui è nata e nel quale l'insieme sociale in cui è vissuta ha richiesto che lei adeguasse le sue scelte.

Ofelia nel suicidio non ha capito Sileno, ha capito il fallimento esistenziale imposto da Socrate, da Gesù o dal Buddha. Ofelia, nella sua scelta, non ha imbracciato il Tirso, ha rivolto la volontà di annientamento verso sé stessa per poter annullare la disperazione in cui si era costruita.

In questo caso Nietzsche usa l'arte come lenitivo per il dolore derivato dalla propria situazione fallimentare. Il fallimento esistenziale trova nel virtuale una ragione di sopravvivenza. Come i ragazzi di oggi, 2014, nei giochi elettronici trovano una condizione in cui giustificare la propria esistenza, così l'arte, per Nietzsche, non è simbolo dal quale trarre i principi attraverso i quali agire nel mondo, ma è lenitivo dell'angoscia esistenziale. L'arte che sublima il desiderio di una rappresentazione di un reale fantasticato. L'arte, usata in questo modo, non manifesta né il Dioniso che cresce dentro di noi, né l'Apollo che consente al Dioniso di esprimersi senza provocare conflitti irrisolvibili nel mondo in cui dovrebbe crescere. L'arte diventa mezzo per addomesticare l'individuo chiudendone la percezione in un delirio patologico che lo mantiene in sospensione fra il continuare a distruggere la società attraverso l'inazione e il diluire il suo desiderio di annientamento soggettivo nell'autodistruzione definitiva. L'arte e il virtuale per mantenere in funzione una massa di malati desideranti e patologici usati dalla società per fermare l'azione del cambiamento di un presente che viene percepito come distruttivo.

Non siamo di fronte all'arte greca che porta gli uomini a pensare il loro presene, siamo davanti a Socrate, Platone e Gesù che indicano nell'autodistruzione il divenire dell'uomo. Lui che viene con grande potenza sulle nubi non è diverso da Socrate che viene indicato come uomo più saggio del mondo davanti al quale le persone devono prostrarsi. L'arte che sottomette il sistema pulsionale dell'uomo è l'arte cristiana. L'arte che sublima il doloro e la sofferenza per puro godimento del dio padrone cristiano.

Il greco non afferrò con presa salda il dio che cresceva dentro di lui. Non fu in grado di seguire il canto di Orfeo. Preferì la schiavitù di Platone e di Socrate. Preferì sognare di essere un'idea dell'Uno che all'Uno ritornava annullando nell'Uno il proprio dolore anziché pensarsi Apollo che con l'arco teso si presenta nell'Olimpo degli Dèi per essere accettato, date le sue scelte esistenziali, come uno di loro.

La natura è conoscenza perché l'azione dei soggetti della Natura è un'azione portatrice della conoscenza di oltre tre miliardi di anni che si è sedimentata dentro di noi. Poi venne l'ignoranza e la presunzione di individui impotenti come Platone, Socrate e gli estensori delle gesta di Gesù e del Buddha che impauriti davanti alla vita descrissero un mondo di terrore da lasciare ai loro figli affinché fossero schiavi obbedienti e adeguatamente terrorizzati.

Né Nietzsche né io saremmo mai pastorelli che suonano il flauto fra i monti dell'Arcadia o sui Lessini. Ognuno di noi è figlio della civiltà in cui è nato. Questo non ci impedisce di suonare il nostro ditirambo, mettere in essere azioni che fanno crescere il Dioniso dentro di noi, e trasformare la morte del corpo fisico, il dilaniamento che i Titani operano sulla forma di Zeus, nella nascita del dio che possiamo diventare rivendicando il nostro posto fra gli Dèi dell'Olimpo. In fondo, gli Dèi non ci stanno chiedendo di uccidere il Leone di Nemea, ci stanno chiedendo di essere uomini e donne fra gli uomini e le donne della nostra società.

Per il lavoro, le citazioni sono tratte da:

Friedrich Wilhelm Nietzsche, La nascita della tragedia, scritto 1872 Pubblicato da Orsa Maggiore Editrice 1993

Marghera, 07 giugno 2014

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre (alle pagine sulla Nascita della Tragedia)

Teoria della Filosofia Aperta - Volume tre

 

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Quando un percorso sociale fallisce o esaurisce la sua spinta propulsiva, è bene tornare alle origini. Là dove il pensiero sociale è iniziato, analizzare le incongruenze del passato alla luce dell'esperienza e abbattere i piedistalli che furono posti a fondamento del percorso sociale esaurito.

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Marghera, 07 giugno 2014

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.