Umberto Galimberti (1942 - vivente)

Il dolore fra mito e cristianesimo - capitolo sei

di Claudio Simeoni

Cod. ISBN 9788827811764

La Teoria della Filosofia Aperta: sesto volume

 

Filosofia Aperta - seconda parte (del volume)

Il dolore nel cristianesimo e il Mito frainteso
da "Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto"

 

Che cosa intendiamo per dolore?

Il dolore non è il male fisico.

Il dolore non è la fatica del lavoro.

Il dolore è dato dalla costrizione messa in atto dall'oggettività rispetto alla possibilità del singolo individuo di veicolare le proprie emozioni nel mondo. Dal momento che le emozioni veicolate nel mondo costituiscono le possibilità di trasformazione del soggetto nella sua vita, la coercizione della veicolazione emotiva blocca le sue trasformazioni e costringe l'individuo in una condizione di dolore per l'impossibilità di trasformarsi. Il dolore degli Esseri della Natura c'è quando i soggetti e le persone, nel nostro caso, non possono più divenire.

Il dolore nasce dalla verità, da Gesù che afferma "Io sono la verità…".

La verità blocca in essa le trasformazioni della persone e impedisce le loro trasformazioni: le persone depresse vivono il dolore per l'impossibilità di trasformarsi affrontando le condizioni che la vita presenta loro.

Nel mito non c'è il concetto di dolore.

Anche quando Achille trascina col suo carro Ettore nella polvere, non crea dolore in Ettore, ma lo uccide.

Quando Nietzsche parla di "fedeltà alla terra" non fa altro che parlare di "fedeltà alla realtà vissuta", come Marx quando parla di lavoro e profitto, anziché parlare del dio padrone, di Gesù o di visioni ontologiche di un'immaginazione vissuta come reale.

Scrive Umberto Galimberti:

Il mito greco: la visione lucida del dolore e il pessimismo della forza

"Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Così Nietzsche, in polemica con la religione cristiana, indica nella fedeltà alla terra il tratto tipico della mentalità greca, che nel mito descrive la vicenda terrena come ciclo eterno di nascite e di morti, in cui ogni forma d'esistenza raggiunge il proprio compimento (télos) alla fine del suo ciclo, dove si estingue per consentire la nascita di nuove forme.

Nel ciclo della natura, che i Greci chiamano physis, da phyo che significa "generare", "crescere", la potenza che genera è la stessa che dissolve, per cui la crudele condizione dell'esistenza umana e il dolore in cui si esprime, essendo inscritti nell'innocenza del ciclo, non hanno bisogno, come nella religione cristiana, di essere giustificati da una colpa, a partire dalla quale si concepisce il dolore come sua inevitabile conseguenza, quindi come evento di riparazione e caparra di redenzione. Se non distruggesse le precedenti forme di vita, la natura non potrebbe proseguire il suo ciclo, per cui sono le stesse condizioni che rendono possibile la vita a chiedere la crudeltà della morte e del dolore.

Il fatto che crudeltà e dolore per i Greci non sono inscritti in uno scenario di colpa rende l'una e l'altro figure d'innocenza, perché la colpa compare solo là dove le forme di vita pretendono con tracotanza (hybris) di oltrepassare i limiti sanciti dal ciclo. In ciò conviene anche la prima parola della filosofia che la tradizione, con Anassimandro, ci ha consegnato:

Da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'un l'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.

Anassimandro chiama questo tempo che fa giustizia chronos. Esso dispiega quel ciclo (kyklos) dove ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. Alla fine ogni forma d'esistenza raggiunge il suo fine, e nel fine il suo compimento (télos). La colpa nasce quando la parte tenta di giocare a proprio vantaggio la legge del Tutto. In questa tracotanza (hybris), in questo oltrepassamento della misura, è la rovina dell'individuo perché, recita il mito: "Il dio manda in rovina chi si inganna circa la propria potenza". L'uomo tragico perisce perché non sta alle leggi del Tutto, perché il suo atto oltrepassa la misura che gli è stata assegnata quando, nel tentativo di salvare la propria vita, nell'avversità delle circostanze, perde il discernimento (phr6nesis).

Per i Greci, il dolore, la crudeltà, il male non sono quindi imputabili a una colpa, come sarà nella religione cristiana, ma a un accesso di follia (ate) che sempre consegue alla perdita della saggezza (phronesis) nella gestione del dolore. è il dolore, che per l'antico Greco fa parte della vita, a generare, in chi ha perso il discernimento, la colpa, e non, come nella religione cristiana, il dolore come conseguenza della colpa. Questo nesso di causalità, per cui il dolore genera la colpa e non viceversa, non è un motivo che ricorre solo nella tragedia, ma lo troviamo già in Omero, in quel passo, ad esempio, dove Agamennone, dopo essersi rifatto della perdita della propria concubina portando via la sua ad Achille, dice:

Ma io non ho colpa,
bensì Zeus e la Moira e le Erinni viaggiatrici nelle tenebre;
furono essi che nell'assemblea mi gettarono nel senno uno
sciagurato accecamento (agrion aten)
quel giorno che tolsi ad Achille il suo premio.
Ma che potevo io fare? E' un dio che manda a termine tutte le cose.

L'attribuzione della colpa all'accecamento della mente, con conseguente perdita della misura nella regolazione del proprio comportamento, non è un modo di dire, ma un modo di pensare, così profondamente radicato nel mondo greco che gli stessi dèi non ne sono immuni. Come ci ricorda Omero: "Ate una volta fece errare anche Zeus, che dicono è il sommo dei numi e degli uomini". Recuperata la saggezza, e con essa la misura, Agamennone offre ad Achille un indennizzo così motivato: "Giacché, accecato da Ate, ho errato, e Zeus mi ha tolto il senno, voglio fare ammenda e offrire doni immensi". Qui Agamennone non ribadisce un alibi morale, perché anche Achille, la vittima del sopruso, vede le cose allo stesso modo:

o Padre Zeus, come sono grandi gli accecamenti (megalas Atas)
che tu assegni agli uomini.
Mai, se no, il figlio di Atreo l'animo in petto (thymon)
così a fondo m'avrebbe sconvolto, né la fanciulla
strappato, inflessibile, a mio dispetto.

Per i Greci, dunque, non si soffre perché si è colpevoli, ma si è colpevoli se non si accetta il dolore. E' perciò il dolore - che fa parte della vita e quindi della natura che, nella sua crudele innocenza, genera e fa perire - ad accecare l'uomo e, nell'accecamento, a renderlo colpevole. A questa radicata persuasione si rifà anche Socrate, che connette il male all'ignoranza e all'insipienza, perché se l'uomo sapesse, se la sua mente non fosse chiusa e accecata, non commetterebbe il male.

Non essendo il male conseguenza di una colpa, non c'è redenzione che liberi dal male. Il male va sopportato come tutto ciò che è per natura, e perciò Nietzsche parla della grecità come di quella cultura percorsa dal "pessimismo della forza (Pessimismus der Starke)", in contrapposizione al "pessimismo come segno di declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboliti - come lo fu per gli Indiani, come, secondo ogni apparenza, lo è per noi, uomini 'moderni' ed europei".

La forza, sempre per Nietzsche, sta nella capacità di "guardare in faccia il dolore" come a qualcosa di assolutamente naturale, non essendo concepibile una natura senza dolore, una generazione senza corruzione, una vita che possa vivere senza il sacrificio di altre. In quanto evento della natura, in quanto intima dinamica della sua vita, per il dolore non c'è redenzione, se non ipotizzando un'altra natura e con essa un'altra vita.

Nasce così la religione che, come vuole l'espressione di Jaspers, è sostanzialmente "liberazione dal tragico (Erlosung vom Tragischen)"," e insieme evitamento di quello che Nietzsche chiama il "pessimismo della forza" che, a differenza della fede e della speranza religiosa, sa che tutto ciò che nasce deve morire, e, vivendo all'altezza della propria morte, fonda la propria dignità sulla, propria finitezza, e quindi su quella misura che non va oltrepassata con una pretesa di eternità.

Nella conoscenza del proprio limite i Greci trovano la certezza di sé, mentre nel suo oltrepassamento incontrano quell'hybris che acceca la mente e rende l'uomo colpevole. Da questo punto di vista la religione cristiana rappresenta l'esatto capovolgimento del mito greco. Per quest'ultimo, infatti, la colpa nasce dal desiderio illimitato di voler perdurare oltre misura nelle condizioni d'esistenza, mentre per la religione cristiana è proprio questo desiderio illimitato a redimere dalla colpa. Il capovolgi mento che la religione cristiana fa del mito greco, e quindi l'antitesi tra mito e religione, non può essere più netto.

Da pag. 94 a pag. 98

Il Mito greco, dice Galimberti, descrive un ciclo di nascite e di morti in cui ogni forma d'esistenza raggiunge il proprio compimento alla fine del suo ciclo. E che altro può fare una ragione legata ai sensi di un corpo fisico che descrivono il mondo come forma e quantità? Inizia con la nascita del corpo fisico e muore con la morte del corpo fisico.

La percezione del mondo come forma e quantità [ragione] nasce e si costruisce nell'individuo con la nascita del corpo fisico e muore nell'individuo con la morte del corpo fisico. Fra l'una e l'altra c'è la vita come trasformazione dell'individuo e l'una e l'altra è preceduta da una fase del venir in essere dell'individuo e del suo corpo che pone le basi della sua COSCIENZA.

Coscienza, coscienza del soggetto che vive, è cosa diversa dalla coscienza razionale con cui l'individuo descrive il mondo. Prima della nascita l'individuo è COSCIENZA, dopo la nascita l'individuo dalla COSCIENZA separa la sua Coscienza razionale con la quale descrive il mondo. La separa da sé, ma il sé, da cui la coscienza razionale è separata, continua a persistere e a modificarsi nel suo abitare il mondo agendo e trasformando continuamente la sua Coscienza razionale che continua ad essere separata dalla sua COSCIENZA di Sé. Al momento della morte del corpo fisico muore la Coscienza razionale, ma la COSCIENZA di Sé che si è trasformata, plasmata, modificata nel corso della sua vita può persistere. Affinché la COSCIENZA possa persistere dopo la morte del corpo fisico è necessario che l'individuo abbia vissuto con passione, con impegno e con partecipazione in tutte le condizioni della sua esistenza. Pertanto, non posso mettere l'accento sul fatto che la COSCIENZA persiste dopo la morte del corpo fisico, ma devo mettere l'accento sulla vita e sulle condizioni e contraddizioni della vita perché, proprio per come l'individuo affronta le contraddizioni della sua vita, può avere o non avere questa possibilità: può essere distinto fra mortale e immortale.

Nella vita quotidiana, sia pur ipoteticamente, distinguiamo fra ciò che è fisico e ciò che è psichico, ma ciò che è psichico non è distinto da ciò che è fisico perché l'uno e l'altro sono indistinguibili nell'attività del corpo ed entrambi, comunque li vogliamo considerare nel loro agire, influiscono e modificano sia il corpo che la psiche.

La modificazione, il mutamento, la trasformazione è l'oggetto della nostra attenzione che esercitata su un soggetto. Il soggetto che osserviamo diventa oggetto di osservazione e, per quanto noi siamo separati da esso, lo osserviamo modificarsi e cambiare continuamente. Non lo possiamo considerare come "oggetto privo di soggettività", ma soggetto in modificazione sia nei primi giorni di gestazione in una gravidanza, sia quando nasce, quando è adulto e quando è vecchio. Come nessuno si bagna nella stessa acqua del fiume che scorre, così lo scorrere della vita non rende un secondo vissuto uguale all'altro. Ogni secondo vissuto non siamo più quelli che vissero il secondo precedente.

Le trasformazioni del soggetto sono le trasformazioni della sua COSCIENZA. Un soggetto che persiste in perenne modificazione, uguale e diverso, in ogni istante della sua esistenza. La COSCIENZA, che definiamo come Coscienza d'Esistenza, è ciò che viene manipolato e plasmato dall'attività degli individui nella loro vita. Se osserviamo la consapevolezza d'esistenza che, spinta da Necessità, mette in atto i suoi adattamenti soggettivi alle variabili oggettive incontrate, non possiamo osservare la manipolazione della COSCIENZA soggettiva ottenuta dall'individuo che coinvolge la sua struttura emotiva nelle scelte della sua vita permettendoci di osservare, mediante l'osservazione delle sue azioni, solo la sua Coscienza razionale. Osservando la coscienza razionale, ignoriamo sia la COSCIENZA complessiva del soggetto, il suo divenuto, l'impegno delle sue emozioni nel suo vivere (la sua capacità di emozionarsi nelle relazioni col mondo) e le trasformazioni che ha vissuto. Ogni individuo ci appare come statico per la Coscienza razionale che ci presenta in quel momento.

Dal momento che la coscienza razionale muore con la morte del corpo fisico e alla coscienza razionale sopravvive, se sopravvive, la COSCIENZA in sé plasmata e modificata nelle contraddizioni della propria esistenza, ne consegue che la paura della morte, propria della coscienza razionale, ha la capacità di bloccare l'attività dell'individuo nell'attesa di una condizione di persistenza della sua coscienza razionale che nei desideri si trasforma in inferno, paradiso, nirvana, karma, reincarnazione, metempsicosi, anima ecc. Ciò che persiste in queste idee è la necessità della coscienza razionale di alimentare un'illusione di eternità di sé stessa. Uno strumento, la coscienza razionale, che ha preteso di diventare padrona dell'individuo imprigionando nella descrizione del mondo il divenire e le trasformazioni della COSCIENZA dell'individuo. Di fatto, bloccando le trasformazioni dell'individuo nella verità della descrizione del mondo, la Coscienza razionale ha impedito la manipolazione della COSCIENZA di Sé dell'individuo, ne ha stoppato le trasformazioni per impedire di mettere in discussione la sua verità, facendo coincidere, di fatto, la morte dell'individuo con la morte della sua COSCIENZA di Sé che è stata privata delle sue possibilità di trasformazione.

Generare, dilatarsi, crescere, trasformarsi è la condizione delle antiche religioni prima dell'arrivo della filosofia di Platone, prima degli ebrei, prima dei cristiani.

Con l'avvento della filosofia di Platone, degli ebrei e dei cristiani, la trasformazione, il divenire e il crescere vengono negati nell'idea dell'esistenza per essere sostituiti dalla sottomissione alla verità di Platone, degli ebrei, di Gesù ecc. La verità della ragione, imposta all'individuo mediante la manipolazione della sua coscienza razionale, diventa l'oggetto in cui si risolvono le trasformazioni dell'individuo che viene costretto nell'attesa dell'intervento del dio padrone, dell'attività della sua anima, della provvidenza divina. L'individuo viene posto in una condizione psichica di angosciosa attesa cessando di trasformarsi, vivendo, nel mondo in cui è nato. In questa condizione la sua COSCIENZA non si trasforma ma viene fermata nella condizione psicologica di attesa che si traduce nell'attesa angosciosa della sua stessa morte al momento della morte del corpo fisico.

I filosofi non hanno mai voluto considerare che al momento della nascita, la costante fra la vita fetale e la vita fisica è la COSCIENZA del soggetto che non solo alimenta le sue trasformazioni fisiche, ma l'intelligenza con cui il soggetto procede a scegliere i migliori adattamenti possibili date le condizioni incontrate e questo modo d'agire tende a trasferirsi nella Coscienza razionale anche se gli adattamenti imposti alla coscienza razionale del singolo dalla società umana tende ad allontanare la struttura pulsionale del soggetto, che dovrebbe governare la coscienza razionale, dalla struttura pulsionale che formò la COSCIENZA dell'individuo per costringere la coscienza razionale a rispondere a sollecitazioni che la inducono a prendere il possesso dell'individuo. Il delirio della coscienza razionale si impossessa della COSCIENZA di Sé bloccando le trasformazioni dell'individuo nel delirio di onnipotenza, al di là di come quel delirio viene rappresentato.

Dalla condizione d'attesa imposta dalla manipolazione della coscienza razionale che porta alla morte della COSCIENZA di Sé che ha cessato di agire nel mondo, nasce la condizione del dolore!

Mentre per la COSCIENZA dell'individuo la morte rappresenta o il trionfo dell'esistenza o la liberazione dal dolore, la coscienza razionale vive l'angoscia perenne della propria precarietà di dominio su un corpo fisico che non solo invecchia, ma che nell'agire e nell'emozionarsi risponde a condizioni che sfuggono alla sua descrizione del mondo e della vita. Mentre l'individuo abita l'intero mondo con la sua COSCIENZA di Sé, la coscienza razionale deve continuamente ripristinare il proprio dominio sull'individuo modificando continuamente la sua descrizione del mondo.

Proprio perché chiuso nella coscienza razionale che delira di onnipotenza, Galimberti afferma che sono le stesse condizioni che, rendendo possibile la vita, chiedono la crudeltà della morte e del dolore. Si tratta solo della condizione di sofferenza vissuta da Galimberti che, incapace di abitare il mondo che esiste al di fuori della descrizione della sua ragione, vive la ragione come unica condizione esistenziale: con essa vive e con essa muore annullando sé stesso. In questa condizione, Galimberti non comprende come Maso, in assoluta indifferenza, possa assassinare i suoi genitori o perché qualcuno decida di gettare sassi sulle automobili dai cavalcavia. Galimberti si chiede "come può un uomo, creato ad immagine e somiglianza del dio padrone, fare questo?". Si è dimenticato che l'uomo non è creato, ma è divenuto adattandosi al mondo che lo ha sollecitato ad adattarsi ad esso. In altre parole, anche Galimberti è responsabile di aver alimentato le condizioni che hanno costretto queste persone a divenire adattandosi a sollecitazioni che le hanno indotte a questi comportamenti.

Fra i Greci e nelle religioni pre-filosofiche non esiste né il concetto di crudeltà, né il concetto di "colpa" e nemmeno la morte è vissuta come espressione di sofferenza e di dolore (tant'è che lo stesso Socrate non ha paura della morte, ma beve la cicuta). Queste condizioni di colpa, crudeltà, sofferenza e dolore sono introdotte da Platone, dagli ebrei e dal cristianesimo perché, costringere gli uomini in quelle condizioni psichiche, si possono governare e controllare. Il dominio dell'uomo attraverso il dominio della sua struttura psichico-emotiva è introdotto nella storia dell'umanità da Platone, dagli ebrei e dai cristiani. Pertanto, non è una condizione dell'uomo, ma una condizione imposta dall'ideologia di Platone, degli ebrei e dei cristiani.

Nel Mito greco questa condizione non esisteva. Le stesse parole di Anassimandro, citate da Galimberti, non hanno il significato che Galimberti, usandole dal punto di vista cristiano, attribuisce loro. Quando giustizia è equilibrio e ingiustizia è squilibrio che deve essere rimesso in equilibrio, siamo al di fuori sia dall'ideologia di Platone che da quella di ebrei e cristiani. Gli Esseri della Natura hanno origine e nella loro origine esprimono la necessità d'esistenza che procede per equilibri e squilibri continui dove il nuovo equilibrio raggiunto non è il precedente equilibrio, ma un nuovo equilibrio arricchito dallo squilibrio vissuto che si alimenta nel tempo, nelle trasformazioni.

I cicli, come il ciclo della vita degli Esseri della Natura, hanno una fine. Dove la nascita procede da qualche cosa e la fine è un inizio per qualche cosa. Ogni forma d'esistenza raggiunge il suo fine. Zeus stesso, nella sua esistenza, raggiunge la sua fine quando Tifone emergerà contro di lui con tutta la sua forza.

La tracotanza o arroganza si presenta quando l'individuo, attraverso la sua coscienza razionale, si appropria di prerogative e di attributi che non ha per ingannare altri Esseri Umani. La tracotanza di Gesù nell'affermare "Io sono la verità…" è il massimo delitto che un individuo possa compiere: ha fatto macellare milioni di uomini per sottometterli a quella verità. Se la tracotanza di Issione era, tutto sommato, ingenua, "Io sono più virile di Zeus, mi sono fatto Hera", la tracotanza di Gesù, di Paolo di Tarso sono tracotanze criminali in quanto impongono la loro soggettività delirante ad individui indifesi.

Nel Mito non esistono leggi del "tutto", le farneticazioni di Platone e dei neoplatonici non appartengono al Mito, appartengono ai platonici e ai neoplatonici.

Il cristianesimo è tragedia e per alimentare la tragedia impone la colpa. L'uomo del Mito fallisce quando non ha ponderato le sue forze in relazione all'oggettività in cui vive. L'uomo come Giasone fa sorgere la rabbia di Medea perché ha disprezzato il mondo che Medea aveva costruito. La tragedia non investe Medea, ma il mondo costruito da Medea. Un mondo a cui Giasone non avrebbe avuto accesso se Medea non lo avesse invitato ad entrare.

Per il Mito greco non esiste la crudeltà o il male. Esistono le cose che vanno fatte per costruire un futuro e quelle azioni non producono dolore, ma la felicità del mondo che germina da quell'agire.

Non è vero, quello che dice Galimberti, che nella religione cristiana il dolore è conseguenza della colpa. Al contrario, il dolore imposto dai cristiani alla società civile è giustificato dai cristiani vaneggiando sulla colpa degli uomini che loro torturano e violentano. Legare il dolore ad una ipotetica colpa fa parte delle strategie cristiane per il dominio dell'uomo. Dopo il terremoto di Lisbona i Gesuiti affermarono che il terremoto era stato mandato dal dio padrone per punirli dei loro peccati. Non aveva mandato il terremoto a Parigi o a Londra, ma a Lisbona: è superfluo dire che gli abitanti di Lisbona cacciarono i Gesuiti.

In Omero non si trova il dolore che genera una colpa. Semmai, si trova la descrizione di un contesto emotivo in cui Agamennone ha agito. Zeus, la Moira e le Erinni sono l'insieme psichico in cui Agamennone agisce. Non attribuisce una colpa a Zeus, la Moira o le Erinni, ma descrive un contesto nel quale ha preso la sua decisione.

Far sbagliare qualcuno nelle sue valutazioni fa parte dell'inganno che il mondo fa nei nostri confronti e fa parte dell'arte della vita (Atena). Ulisse inganna i troiani con il cavallo di Troia. I troiani hanno colpe? No! Sono stati tratti in inganno anche se avevano a disposizione segnali che li avrebbero potuti portare in una diversa direzione. Cassandra e Laocoonte, ma gli Dèi mandano i serpenti. I segnali ci sono, sta agli uomini coglierli. Oggi la scienza mi dice che le piante sono portatrici di intelligenza, io lo affermavo quaranta anni or sono fra le risate dei miei ascoltatori. Oggi, quest'idea è più condivisa. Eppure i segnali c'erano, bastava coglierli. In questo consiste l'inganno che gli Dèi mettono in atto inviando segnali che appaiono contraddittori, ma sta alle capacità dell'uomo, al Potere Personale che ha costruito in sé stesso nella sua esistenza, scegliere e discriminare fra essi agendo come un dio fra Dèi.

Non esiste nel mito greco l'assoluto a cui tutto si deve inchinare, ma esiste una strategia dell'esistere che media fra diverse strategie dove vantaggi e svantaggi provengono dal creare squilibrio e dal riequilibrare il presente vissuto in una trasformazione continua. Nessuno è immune dalle trasformazioni del presente vissuto: nemmeno Zeus.

Per i greci la sofferenza non esiste perché non esiste sottomissione e quando uno squilibrio interviene a costruire delle contraddizioni, non esiste un annientamento psichico dell'individuo ridotto alla sofferenza, ma esiste una possibilità di scelta che ripristina l'equilibrio dell'esistenza. Non sta soffrendo Prometeo perché l'aquila gli divora il fegato, Prometeo è in attesa della trasformazione. Zeus lo ha condannato all'immobilità, alla non trasformazione, e Prometeo attende il momento in cui ricomincia a trasformarsi. Come un seme di un fiore nel deserto che attende la pioggia per poter germinare.

Il cristiano vive la situazione di Prometeo come una sofferenza. Il cristiano si immagina il fegato strappato dal becco dell'aquila e immagina un dolore provato esattamente come le immagini dell'inferno, descritte nell'apocalisse di Paolo ripresa da Dante, gli indicano le camere di tortura della sua inquisizione.

Eschilo, nel Prometeo incatenato usa la situazione per indicare l'autorità come nemica dell'uomo, non per condannare Zeus. Prometeo non accetta le sue catene, ma non rinuncia alla sua ribellione. La non rinuncia alla ribellione attenua il dolore della carcerazione. Quando fui incarcerato, non accettai la situazione come irreversibile o inevitabile e questo mise in moto forze psichiche dentro di me. Al contrario, coloro che accettarono la carcerazione come punizione o come espiazione della colpa, entrarono in depressione o tentarono il suicidio.

Non era dolore, era tensione soggettiva che spingeva per cercare di modificare il presente vissuto.

La Natura non genera, sono gli Esseri che compongono la Natura che generano. La Natura non è innocente in quanto mantiene un equilibrio fra le specie per salvaguardare sé stessa. La Natura non è crudele: senza la morte del feto non nasce l'individuo. E non si può imputare di crudeltà l'uomo che maschera con un Essere Verme il suo amo da pesca per uccidere un pesce, come non si può parlare di crudeltà da parte dell'Essere Formica Leone che tende trappole ad altri Esseri della Natura. Non si può parlare di crudeltà quando si parla del virus della polmonite che uccide un uomo. Tutti gli Esseri accecano ed ingannano. Solo il dio padrone cristiano impone la vita come sofferenza agli uomini impedendo loro di chiamare assassini e crimini le azioni con cui qualifica la sua onnipotenza.

La vita stessa è Arte dell'Agguato nella quale gli Esseri della Natura esercitano il loro Intento per espandere sé stessi nella loro esistenza. E' solo il dio padrone cristiano che distrugge gli uomini senza aver la necessità di espandere sé stesso essendo descritto, dai cristiani, come un assoluto che commette delitti assoluti. La crudeltà è propria del dio padrone cristiano, non degli Esseri che vivono. Il dolore è imposto dal dio padrone cristiano che blocca il movimento e le trasformazioni degli Esseri Umani per sottometterli, non in chi inganna altri per modificare sé stesso. Magari solo per poter mangiare.

E' Socrate che alimenta il male e il dolore aggredendo gli uomini di Atene insultandoli. Dopo averli derubati di quanto gli serve per vivere, al solo fine di sottometterli affinché costoro riconoscano che lui, Socrate, è l'uomo più saggio del mondo perché lo ha detto il dio li deride chiamandoli stolti e incapaci (come se lui, al loro posto, fosse stato più capace). Lo stesso fecero Berlusconi e Renzi che insultarono gli uomini affinché riconoscessero che loro erano i padroni degli italiani e, per ottenere questo, seminarono dolore mediante azioni crudeli. Loro erano cristiani e i cristiani creano dolore danneggiando, solo per il piacere di danneggiare, come fa il loro dio padrone, la vita degli uomini. Il male è fatto da Socrate, dal dio padrone cristiano, dal Gesù dei cristiani e, mentre lo fanno, accusano gli uomini che non si mettono in ginocchio, di non voler sottostare al dolore che loro impongono.

Dal momento che nei greci non c'è un dio padrone che impone il male agli uomini, non è necessaria nemmeno la redenzione che liberi dal male. Non c'è nella Grecia quella che Nietzsche chiama "pessimismo della forza" e non c'è nemmeno il fallimento imposto dal dio dei cristiani.

Le Laminette Orfiche ci portano un esempio di devozione religiosa nei confronti della morte. Una devozione che rattrista il vivo, ma lasca indifferente colui che muore:

Laminetta orfica di Petelia

Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte,
e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:
a questa fonte non avvicinarti neppure.
Ma ne troverai un'altra, la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi i custodi.
Di': "Son figlio della Terra e del cielo stellato:
urania è la mia stirpe, e ciò sapete anche voi.
Di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto
la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne".
Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina;
e dopo di allora con gli altri eroi sarai sovrana.
A Mnemosyne è sacro questo (testo): (per il mystes), quando
sia sul punto di morire [...]
in margine[...] la tenebra che tutt'intorno si stende

Trad. G. Pugliese Carratelli

Laminetta orfica di Thurii

Ma come l'anima si allontana dalla luce del sole
vieni nella direzione del guardiano posto a destra della via dritta?;
è tutto perfetto.
Gioisci, tu che hai sofferto la sofferenza; prima non l'avevi ancora sofferto.
Da uomo sei diventato dio; capretto cadesti nel latte.
Gioisci, gioisci, perché cammini lungo la strada che si dirige a destra,
verso i prati sacri e i boschi di Persefone.

Il termine "sofferenza" sta ad indicare gli sforzi che si sono compiuti nel corso della propria esistenza. Le trasformazioni che si sono attraversate. E il risultato degli sforzi è ben definito nella Laminetta: "Da uomo sei diventato dio; capretto cadesti nel latte." [tratto dalla Cosmogonia Orfica]

Nei sistemi di pensiero pre platonici non esiste il concetto di male, di dolore o di sofferenza, ma vige il concetto secondo cui la vita va affrontata e per essa anche le condizioni che possono ostacolare lo sviluppo della vita. Il male, la sofferenza o il dolore che si può incontrare nella lettura del Mito sono parte della vita stessa. Le stesse "uccisioni" che avvengono nel Mito, (come Cronos che evira Urano o Zeus contro Cronos) non sono "uccisioni" intese cristianamente o come vengono intese dagli ebrei o da Platone, ma sono trasformazioni della realtà vissuta in cui il "dio" ucciso persiste alimentndo le strategie d'esistenza del dio vincitore. Nessuno uccide Urano Stellato, il dio persiste sia come universo abitato da Coscienze, sia come emozione che insorgendo trasforma i corpi da inconsapevoli a consapevoli.

Il declino e la sensazione di fallimento di Nietzsche è dovuta all'uso di droga che modificando la sua struttura psico emotiva rispetto ad una realtà, nella sua percezione sempre più incomprensibile, lo porta a vivere una sorta di separazione fra sé stesso che si avvia verso la morte del corpo fisico e un mondo oggettivo che diventa sempre più estraneo. La droga in Nietzsche è come il cristianesimo: la fonte che produce il dolore soggettivo e che lo porta al delirio. In questa situazione a Nietzsche non resta altro che compiacersi del dolore, vivere il dolore, far del dolore il senso di un'esistenza che lo costringe ad una ossessiva separazione fra sé e il mondo sognando un'altra vita, un eterno ritorno, che allevi il suo dolore per il suo fallimento esistenziale. Il fallimento esistenziale non è stato provocato dalle scelte di Nietzsche, ma da quell'eterno ritorno che condanna, per volontà divina, gli uomini a ripetere le stesse azioni.

In questo modo, la religione assolutista che crea il dolore fra gli uomini distruggendo la loro struttura psico emotiva impedendo la veicolazione delle sue emozioni, viene assolta da ogni responsabilità. In questo dolore imposto nasce nell'individuo la fede come manipolazione dolorosa della sua struttura psichica che viene messa in atto dalla chiesa cattolica fin dalla primissima infanzia.

L'uomo sa che deve morire, ma la morte non è né dolore né disperazione. La morte diventa dolore e disperazione solo nella religione cristiana che annullando la veicolazione della struttura emotiva dell'uomo lo rende impotente e disarmato davanti alla morte.

Scrive Epicuro:

Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.

Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l'arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta dell'Ade.

Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.

Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.

Tratto per brevità da internet:

Non c'è paura della morte se non in coloro che sono sottoposti alla violenza di Platone. Il dolore non è legato alla colpa, ma una volta imposto il dolore esistenziale, come agli ebrei a Babilonia, si impone la colpa agli uomini per giustificare un diritto attraverso cui costringere gli uomini nel dolore.

La tracotanza è ben rappresentata dal Gesù di Nazareth che si proclama padrone degli uomini in quanto figlio del dio padrone. La pretesa di essere padrone è l'atto tracotante. Il motivo per cui avanza questa pretesa, è l'aspetto delirante del suo esistere e, per alimentarlo, ordina di scannare chiunque non si metta in ginocchio davanti a lui. In tutti i vangeli Gesù è il padrone e tutti si devono mettere in ginocchio davanti a lui. Tutti lo devono riverire e servire: lui è il padrone, colui che divide gli uomini in grano e loglio ordinando di buttarli nelle fornaci. Questo terrore genera il dolore nelle società umane.

Esculapio viene fulminato da Zeus perché riportava in vita nella Natura i morti. Gesù viene glorificato perché afferma di resuscitare la carne. Esculapio viene fulminato da Zeus perché ha riportato in corpi della Natura soggetti che hanno lavorato per diventare degli Dèi completando l'opera con la loro morte. Gesù promette la resurrezione della carne a coloro a cui ha rubato la possibilità di costruire il loro corpo luminoso. In altre parole, Gesù consola chi ha derubato della loro possibilità di diventare un DIO, Esculapio ruba il divenuto come un DIO per riportare quella COSCIENZA nella Natura.

Sono offensive le affermazioni di Galimberti secondo cui la colpa nasce dal desiderio di vivere per sempre dei Greci mentre, dice Galimberti, per il cristiano il desiderio di vivere per sempre redime il cristiano dalla colpa quando il cristianesimo impone il dolore a chi vive nel mito per imporre la colpa esistenziale. La religione, per Galimberti, è solo la religione cristiana in cui il cristiano, fallito nella sua esistenza, supplica la provvidenza del suo dio padrone per avere quell'eternità che ha sprecato per sottomettersi a lui rinunciando a trasformarsi in un DIO.

Quanto soffre il cristiano. Che soffra in silenzio e non crei sofferenza ad altri.

Marghera, 10 giugno 2016

NOTA: Le citazioni di Galimberti sono tratte da "Cristianesimo – La religione dal cielo vuoto" di Umberto Galimberti editore Feltrinelli 2012

 

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Quando un percorso sociale fallisce o esaurisce la sua spinta propulsiva, è bene tornare alle origini. Là dove il pensiero sociale è iniziato, analizzare le incongruenze del passato alla luce dell'esperienza e abbattere i piedistalli che furono posti a fondamento del percorso sociale esaurito.

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Marghera, 10 giugno 2016

Claudio Simeoni

Meccanico

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La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.