Felix Lacher Ravaisson-Mollien (1813 - 1900)

I fondamenti dello spiritualismo

Claudio Simeoni

 

Cod. ISBN 9788892610729

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

Felix Ravaisson in L'Abitudine

 

Ravaisson, in contrapposizione ai fisici del suo tempo, vuole tornare alla metafisica aristotelica come principio motore della realtà e come principio creatore (dio) che individua nella coscienza dei viventi.

Il suo pensiero filosofico ha lo scopo di spiegare il meccanismo della coscienza in relazione all'attività creatrice del suo Dio padrone che trasforma in un'unità panteistica che anima l'intera natura in tutte le sue parti.

La soluzione che Ravaisson adotta è il concetto di abitudine come ripetizione automatica e meccanica di quanto è acquisito da ogni singolo essere che rimane comunque creato da Dio e, come tale, immodificabile.

Scrive Abbagnano in storia della filosofia:

Il Saggio sulla metafisica di Aristotele tende a fare dell'aristotelismo la dottrina originaria e tipica dello spiritualismo. Ravaisson stesso accennando ad esso nel suo Rapporto afferma che lo scopo della sua esposizione consisteva nel mostrare «come colui che creò il nome stesso della scienza del soprannaturale, e che la costituì per primo, gli dette per principio, in luogo del numero e dell'idea - entità equivoche, astrazioni erette in realtà - l'intelligenza che per una esperienza immediata coglie in se stessa la realtà assoluta dalla quale ogni altra dipende». In altri termini Ravaisson ha visto nel principio della metafisica aristotelica il principio stesso dello spiritualismo, la coscienza.

Tratto da: Nicola Abbagnano Storia della Filosofia Vol. VI p. 17 – 18 Editore TEA 1995

Gli spiritualisti pensano che oltre l'uomo c'è solo l'uomo nella sua attività di sottomissione alla morale del loro Dio padrone alla quale sacrificano l'uomo e il suo divenire. Secondo gli spiritualisti, non esiste qualcosa che preceda l'uomo o il vivente della Natura che nel suo nascere manifesta ogni cosa dell'uomo anche attraverso la sua immaginazione. Se da un lato le idee che entrano nell'abitudine devono, secondo Ravaisson, essere precedute da idee confuse o irriflessive, lo stesso meccanismo non lo applica ai viventi che a lui appaiono solo confusi. In pratica non dicono che se esiste una forma che oggi chiamiamo uomo, materialmente definito, deve esistere prima di lui una diversa forma indefinibile dalla quale la forma, che oggi chiamiamo uomo, è emersa.

L'intelligenza stessa è il prodotto del divenuto e delle trasformazioni dell'uomo come specie e, in particolare, è formazione dell'attività dell'uomo sedimentata dentro l'uomo, come esperienza che costruisce l'uomo. L'intelligenza, comunque la vogliamo definire, è una manifestazione del corpo vivente, della sua coscienza con cui distingue sé stesso dal circostante e si fonde con la volontà manifestata nell'azione per scegliere le migliori condizioni in cui veicolare i propri desideri e soddisfare i propri bisogni.

Il fisico, la fisicità degli Esseri della Natura, produce il metafisico che deve essere inteso come insieme di esercizi dell'immaginazione razionale che tenta di elevarsi all'assoluto identificandosi in un assoluto che descrive enfatizzando e proiettando sé stessa.

L'idea prodotta dall'attività di Aristotele, la sua partecipazione al dominio imperiale, produce la giustificazione metafisica che giustifica mediante illazioni il suo identificarsi col motore primo dell'universo al di là della materia.

L'origine del modo dell'uomo di pensare il mondo sta nelle condizioni in cui l'uomo vive e plasma sé stesso. Un tempo questa fu un'intuizione. Oggi la scienza scopre dei meccanismi di formazione delle idee dai quali l'uomo non può prescindere: la plasticità cerebrale, i neuroni specchio e il cervello nello stomaco.

L'uomo immagina un sopra, un prima, un oltre l'uomo. L'uomo che immagina non fa altro che desiderare un sopra, un prima, che giustifichino il proprio stato e le proprie pulsioni. Un'evasione dal reale in cui l'immaginato non è Necessità in un presente vissuto, ma è la giustificazione adottata per sottrarsi alle contraddizioni del quotidiano. Per questo in Ravaisson la coscienza "si rivela a noi stessi come un'esperienza posta al di fuori del corso della natura". In questo caso Ravaisson dovrebbe dimostrarci come e dove esiste una coscienza che non sia manifestazione di un soggetto della natura o, comunque, di un corpo materiale.

Io posso accettare l'idea secondo cui nel mio pensiero razionale, dal momento che ho chiuso mediante la razionalità, la coscienza alle voci del corpo, posso distinguere fra la coscienza e il mio corpo. Ma non posso affermare che la coscienza viva senza un corpo perché non ho nessun elemento che possa supportare tale affermazione che diventa pura illazione a giustificazione di un desiderio di fuga dalla realtà. E non esistono elementi per affermare che la coscienza di sé della singola cellula del corpo non abbia dei canali di comunicazione con la coscienza dell'"io sono" dal momento che la singola coscienza del mio corpo, mediante la sua azione di persistenza in essere, dice alla "mia" coscienza dell'"io sono", "io esisto e ho queste necessità per persistere".

Il principio secondo cui non esiste una coscienza senza un corpo è un principio da cui non possiamo derogare perché non esiste nessun elemento che possa contrariare questa affermazione. Per estensione, diciamo che non esiste nessuna intelligenza, nessuna volontà, nessun desiderio, senza un corpo che manifesti intelligenza, volontà o desiderio.

Nel mondo del tempo l'oggetto in sé è l'azione. Dall'azione e dalle caratteristiche che individuo nell'azione, deduco la presenza di coscienza, intelligenza, volontà e desiderio, che è riferito all'azione e non necessariamente al soggetto che individuo come "causa" dell'azione nel mondo della ragione. Quando l'azione è oggetto nel mondo del tempo, nel mondo razionale, l'azione del soggetto costruisce delle relazioni modificando il presente in cui vive e gli altri soggetti/oggetti del mondo razionale interpretano la coscienza, l'intelligenza, la volontà e il desiderio del soggetto che agisce dalle azioni che quel soggetto mette in atto. E' l'azione che manifesta la qualità della coscienza che è sempre manifestazione di un corpo che agisce.

Noi, in quanto corpo, siamo quella coscienza. Non esiste una esperienza di coscienza separata dall'esperienza del corpo. Non esiste un'esperienza dell'immaginazione e un'esperienza del corpo che abita il mondo. Che poi la ragione tenda a separare la fantasia del suo desiderare dalla coscienza proiettando la fantasia del suo desiderare in forme di delirio patologico di onnipotenza identificando il delirio con un infinito che si rivela nella coscienza, è un meccanismo psichico di difesa della ragione e della razionalità, non la presa di coscienza di un'esperienza.

Questo non significa che il corpo oltre all'esperienza razionale non accumuli anche altre forme di esperienza come l'esperienza del tempo e dell'azione e l'esperienza delle relazioni emotive dalle quali la ragione esige un'assoluta separazione nella sua attività di controllo della coscienza. Però si tratta sempre di esperienze del corpo. Un corpo che abita il mondo e che manifesta una coscienza e che potrebbe manifestare la coscienza di ogni sua singola cellula in un numero infinito di esperienze.

La ragione delirante in forme fantastiche è vissuta da Ravaisson come una forma aristocratica del pensiero esattamente come lo schizofrenico vive la sua patologia come forma di realtà ponendosi al di sopra di altre realtà che ritiene irreali.

Il meccanismo della coscienza è descritto da Ravaisson nel suo trattato sull'Abitudine. Il trattato, scritto come tesi, fu rivisto da Ravaisson fino al 1894 e, pertanto, possiamo ritenerlo a fondamento delle idee dei creazionisti panteisti e di tutto quel movimento di pensiero che da Maine de Biran, in opposizione al pragmatismo illuminista, porterà a Bergson nel tentativo dei creazionisti di opporsi ai materialisti riaffermando il dominio del Dio padrone, che essi controllano, sull'uomo.

Scrive Ravaisson in l'Abitudine:

L'effetto generale della continuità e della ripetizione dei cambiamenti, l'essere vivente origina soltanto da sé stesso; questi cambiamenti non vanno a distruggerlo, egli è sempre lo stesso né tanto meno viene alterato [modificato].

Al contrario, più l'essere vivente ripete o prolunga un cambiamento che ha in lui la sua origine più ancora ne produce e tende a riprodurlo. Tanto più il cambiamento che gli è arrivato dall'esterno gli risulta estraneo, tanto più il cambiamento che nasce da lui medesimo gli diventa sempre più suo. La ricettività diminuisce, la spontaneità aumenta. Questa è la legge generale della disposizione dell'abitudine che la continuità alla ripetizione del cambiamento sembra generare in tutti gli esseri viventi.

Se dunque il carattere della natura, che fa la vita, è la predominanza della spontaneità sulla ricettività. L'abitudine non è sottoposta solamente alla natura, ella si sviluppa in una direzione stessa della natura condividendo con quest'ultima il medesimo senso.

Fintanto che l'organizzazione non è lontana dall'omogeneità inorganica la causa della vita, se non multiformi e diffuse, quanto meno ancora vicina d'esserlo. Fintanto che le trasformazioni sono poco numerose, in una parola, fintanto che la potenza di cui la vita è manifestazione non ha che un piccolo numero di trasformazioni da percorrere per arrivare alla sua fine; l'esistenza è appena affrancata dalla necessità e l'abitudine penetra difficilmente.

L'abitudine ha poco accesso alla vita vegetale. Eppure la durata del cambiamento lascia già delle tracce durature non soltanto nella costituzione materiale della pianta, ma anche nella forma superiore della sua vita. Le piante, le più selvagge, cedono alla cultura [agricoltura].

Ma la vegetazione non è la forma più elevata della vita. Al di sopra della vita vegetale vi è la vita animale. Ora, un grado di vita superiore implica un maggior numero di metamorfosi, una organizzazione più complicata, una eterogeneità superiore. Allora sono necessari degli elementi diversi affinché siano assorbiti dall'essere nella propria sostanza; occorre che esso li prepari e li trasformi.

Per fare questo è necessario trasformarli con qualche organo appropriato. E' necessario che egli si muova, almeno in parte, in uno spazio esterno. Infine è necessario che abbia qualche cosa in lui su cui gli oggetti esterni facciano una qualche impressione, di qualunque natura sia, ma che determini movimenti coerenti. Queste son le condizioni più generali della vita animale.

Tanto più ci si innalza nella scala degli esseri, tanto più si vedono moltiplicare e definirsi i rapporti dell'esistenza che hanno le due condizioni della permanenza e del cambiamento nella natura, lo spazio e il tempo; la permanenza e il cambiamento sono le condizioni prime dell'abitudine.

La legge elementare dell'esistenza è l'estensione, senza forma né grado di definizione, con la mobilità indefinita; questo è il carattere generale del corpo. La prima forma che lo determina è la figura definita nella sua forma e la mobilità definita nella sua direzione; è il carattere generale del minerale (solido).

La prima forma della vita è lo sviluppo, l'accrescimento nello spazio definito in direzione e grandezza; sotto la figura definita nella sua grandezza come nella sua forma: è la via vegetale. Infine il carattere generale e il segno più apparente della via animale è il movimento nello spazio. A questa serie di relazioni con lo spazio e il movimento si legano una serie di rapporti analoghi col tempo. Il corpo esiste senza nulla divenire; egli è in qualche modo fuori dal tempo. La vita vegetale richiede un certo tempo ch'ella riempie con la sua continuità. La vita animale non è più continua; tutte le sue funzioni si alternano fra riposo e movimento; sono tutte intermittenti; almeno nella veglia e nel sonno; le funzioni intermedie che hanno come fine immediato le funzioni alla via vegetale sono soggette a periodi più corti e più regolari.

Tradotto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 14 – 16 (Traduzione mia)

Ravaisson, per imporre il concetto di abitudine che tanti danni farà nella storia dell'uomo, procede a separare l'uomo dal mondo. L'operazione degli spiritualisti consiste nel separare l'uomo dalla Natura, ma dal momento che questa operazione appare pura follia in quanto i nostri sensi ci portano a considerare l'uomo come parte della natura, gli spiritualisti tendono a tagliare tutti i legami fra l'uomo e la Natura per costruire nuovi legami fra l'uomo e il loro Dio padrone conchiudendo l'idea dell'uomo in una forma patologica.

Questa operazione la fece Maine de Brian che distaccatosi dal mondo si rinchiuse in un pensiero che si giustificava esclusivamente nella relazione che egli aveva col suo Dio padrone; un pensiero che giustificava sé stesso proiettato nell'idea del Dio padrone.

L'essere vivente riproduce l'atto che provoca il cambiamento, come lui è nato, così riproduce l'atto che porta alla nascita.

Qui non rimane che metterci d'accordo su che cosa intendiamo per cambiamenti. Cosa vogliamo afferrare dell'oggetto che cambia e quando possiamo parlare di un cambiamento in forma "parziale" o in forma complessiva dell'essere vivente. Dal punto di vista della teologia, della filosofia e della fisiologia, non esiste un solo cambiamento, per quanto piccolo, in essere vivente, uomo compreso, che non implichi il cambiamento e riassestamento di tutto l'individuo inteso sia come struttura fisica, che psichica, emotiva, ideale, come pensiero e come percezione del mondo.

Ogni volta che un fenomeno giunge all'uomo, comunque l'uomo lo percepisca o lo descriva, immediatamente mette in atto delle azioni di adattamento soggettivo a quel fenomeno sia che la sua struttura si limiti a subirlo passivamente sia che la sua struttura metta in atto delle azioni, come risposta a quel fenomeno, producendo altri fenomeni che agiscono nell'insieme in cui quest'uomo vive.

Il fenomeno esterno non cambia l'uomo, ma le risposte dell'uomo alle sollecitazioni esterne producono un cambiamento dell'uomo. Il cibo non cambia l'uomo se l'uomo non risponde al cibo fagocitandolo: è il cibo che cambia l'uomo (come crescendo) o è l'uomo che cambia in risposta al cibo? Certi aspetti delle domande fatte da Ravaisson sono oziose, come il suo inserimento dell'idea di movimento. Un'idea talmente elementare che non sarebbe stata presa in considerazione nemmeno dai materialisti meccanicisti se non come riflessione sulla materia. Gli Esseri si adattano al mondo, ma il mondo, adattandosi agli Esseri, li costringe a trasformarsi favorendo la propria trasformazione.

Il cambiamento degli Esseri procede attraverso questo meccanismo. Un meccanismo che ha nella relazione fra sé e il mondo, il motore del cambiamento, dell'adattamento.

Ricettività e spontaneità, sono sostantivi che indicano qualità di un soggetto che è sempre un corpo vivente che abita il mondo e che si trasforma privo di spontaneità in quanto, mentre la ricettività può essere misurata in quantità e qualità dei fenomeni percepiti, la spontaneità implica l'assenza di intelligenza, di programmazione, di desiderio di un soggetto che non può essere spontaneo se non nella manifestazione del suo desiderare.

Il soggetto che non è aperto ai fenomeni del mondo non può mai essere un soggetto spontaneo, ma può e deve essere considerato un soggetto malato perché sottraendosi al mondo ha negato a sé stesso le possibilità di adattamento soggettivo, e di trasformazioni, che il mondo, come opportunità, gli offriva.

La ripetizione dell'azione, diversamente da quanto sostiene Ravaisson, non crea l'abitudine, ma trasforma il soggetto. Dalla quantità di gesti emerge la qualità del gesto. La qualità del gesto emerge quando il soggetto ha trasformato la sua struttura neuro-vegetativa, psico-emotiva, psico-fisica, che la ripetizione del gesto e il coinvolgimento emotivo hanno modificato.

L'individuo si è trasformato, rispondendo alle sollecitazioni continue del mondo, per poter agire in maniera più adeguata alle sue sollecitazioni. Nello stesso tempo, la sua trasformazione, gli permette di agire meglio nel mondo sollecitando il mondo a trasformarsi.

Il carattere della natura è ciò che io sono. La natura non esisteva prima che il primo Essere, in quel brodo primordiale, all'inizio del tempo della vita, non divenne cosciente di sé. Quell'Essere che si muoveva in quella materia che costruì il suo corpo che divenne cosciente, manifestò, sia pur in embrione e in potenza, tutte le pulsioni che oggi noi attribuiamo alla Natura e che sono, in quanto suoi "figli", con le trasformazioni del tempo e gli adattamenti di specie, tutte dentro di noi.

Noi siamo la Natura. Ogni Essere vivente è padre, figlio e manifestazione in essere della Natura: ogni soggetto è la natura e nulla è estraneo, della natura, al soggetto vivente nato nella Natura.

Dunque, non spontaneità e ricettività, ma coinvolgimento, attraverso la percezione, nelle relazioni dei soggetti nel mondo e nella Natura, che portano alla trasformazione dei soggetti stessi e della natura nel suo insieme.

L'esistenza non è mai affrancata dalla necessità d'esistenza. Semmai la necessità d'esistenza ha un infinito numero di veicolazioni e un infinito numero di rappresentazioni, per ogni Essere di ogni Specie della Natura, da produrre un infinito numero di cambiamenti.

Il primitivista spiritualista ritiene semplice il microorganismo, ma noi che abitiamo il mondo conosciamo la complessità della coscienza e della consapevolezza del microorganismo in quanto la nostra coscienza, pur rappresentata in maniera diversa in un corpo diverso, manifesta la stessa necessità di persistenza e espansione nell'esistenza del microorganismo.

Allo stesso modo in cui si ritiene primitivi questo o quell'organismo, lo spiritualista ritiene che, al momento che le piante non si muovono nello spazio, non hanno le gambe, siano esseri inferiori agli animali. Per questo Ravaisson non ritiene che quella che lui chiama abitudine, come trasformazione sistematica soggettiva psico-fisico-emotiva del soggetto, si applichi alle piante come se le piante, come l'uomo, non siano usciti dal medesimo brodo primordiale e non abbiano i medesimi antenati che ad un certo punto hanno messo in atto delle strategie diverse per assicurarsi la persistenza e lo sviluppo nella loro esistenza. Le piante, le più selvagge, dice Ravaisson, cedono spazio alle piante coltivate nello stesso modo in cui i "selvaggi primitivi" cedono spazio ai cristiani che li macellano. Per Ravaisson le piante sono una forma di vita "inferiore" non uno sviluppo parallelo degli Esseri capace di trasformare l'inconsapevole in consapevole con coscienza di sé.

Affermare che nella vita c'è qualche cosa di più "elevato" o di "meno elevato" significa aver stabilito una gerarchia che è estranea alla vita e alla natura, ma è legata al Dio padrone, il gerarca dei gerarchi.

Anche se noi accettassimo di distinguere fra vita animale e vita vegetale, non possiamo stabilire un "prima" e un "dopo", un "sopra" e un "sotto", un "primitivo" o un "evoluto". Anche quando oggi ci riferiamo a specie animali o vegetali scomparse, non possiamo parlare di elementi primitivi, ma di soggetti adeguati e soggetti inadeguati date le condizioni ambientali. Il fatto che, come sembra oggi, l'uomo abbia fatto sparire il mammut, non possiamo parlare del mammut come di un animale primitivo, ma dobbiamo parlare di un essere inadeguato a quella variazione ambientale messa in atto dall'uomo.

La vita vegetale è diversificata anche in maniera più complessa che non la vita animale, ma la necessità di Ravaisson di giustificare la sua "superiorità di specie prima e di razza, poi" lo portano ad ignorare dati di fatto prendendo sé stesso a modello di perfezione e rigettando ogni diversità come inferiore.

Un grado di vita che richiede un numero maggiore di metamorfosi, di trasformazioni, non è una vita superiore, è una vita che nel corso delle trasformazioni era inadeguata ad affrontare l'ambiente ed è stata costretta ad un numero maggiore di trasformazioni per sopravvivere; per adeguarsi.

Alberi millenari potrebbero deridere Ravaisson. Persistono e hanno modificato sé stessi in un modo inimmaginabile per Ravaisson che pieno della sua identificazione in un delirio col suo Dio padrone, non è in grado di vedere le trasformazioni della vita.

Scrive Ravaisson in l'Abitudine:

La doppia legge dell'influenza contraria della durata del cambiamento sull'essere, sia che le subisca soltanto o che li provochi, la doppia legge dell'abitudine deve dunque manifestarsi anche qui per dei tratti più sensibili e più incontestabili. Le impressioni perdono la loro forza più si riproducono. Ora le impressioni sono anche sempre più leggere e interessano sempre meno la costituzione fisica degli organi. L'affievolimento graduale della ricettività sembra dunque sempre più l'effetto di una causa iperorganica.

D'altro canto i movimenti sono sempre più sproporzionati alle impressioni della ricettività, il progresso del movimento sembra dunque essere più indipendente del suo principio di alterazione materiale dell'organismo. Ma se la reazione è la più lontana e indipendente dall'azione alla quale risponde, sembra che sia sempre più necessario un centro che serva da comune limite dove l'uno arriva e l'altro parte. Un centro regolatore più per sé stesso, nella sua maniera e nel suo tempo, in rapporto quanto meno immediato e necessario della reazione che riproduce attraverso l'azione che subisce.

Non è l'essenza un termine medio indifferente come il centro delle forze opposte in una leva; ma è necessario un centro che per sua propria virtù misura e dispensa la forza. Chi sarà dunque una simile misura se non un giudice che conosce, stima, prevede e decide?

Che cos'è quel giudice se non il principio che si chiama anima?

Così sembra appartenere all'impero della Natura il regno della conoscenza e della previdenza, e altrettanto sorge la prima luce della libertà.

Tuttavia, queste sono indicazioni ancora oscure, incerte e contestate; ma la vita fa un ulteriore passo. La potenza motrice arriva, attraverso il movimento degli organi, all'ultimo grado della perfezione. L'essere è uscito in origine dalla fatalità del mondo meccanico nella sua forma compiuta della più libera attività. Ora, quest'essere, siamo noi stessi.

Qui comincia la coscienza e nella coscienza risplende l'intelligenza e la volontà. Fin là la Natura è per noi uno spettacolo che noi vediamo dal di fuori. Noi delle cose vediamo l'esteriorità dell'atto. Noi non vediamo la disposizione né la potenza.

Nella coscienza, al contrario, è lo stesso essere che agisce e che vede l'atto o, piuttosto, l'atto e la vista dell'atto si confondono. L'autore, il dramma, l'attore, lo spettatore non sono che il medesimo essere. E' dunque soltanto qui che si può sperare di sorprendere il principio dell'atto. E' dunque nella coscienza soltanto noi possiamo trovare il tipo dell'abitudine; è solo nella coscienza che noi possiamo sperare non più soltanto di constatare la legge apparente, ma di apprendere il come e perché, di penetrare il generare e di comprenderne le cause.

Tradotto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 18 – 20 (Traduzione mia)

L'abitudine diventa per Ravaisson la mediazione fra il corpo che nel ripetere un movimento o un comportamento diventa abile o abituato ad una morale, e l'anima è il limite del corpo.

Per Ravaisson l'anima è la libertà che entra nella natura e l'uomo, come l'animale, non hanno libertà se non attraverso l'anima. Per Ravaisson ogni mutamento nella natura è un riflesso, un istinto, un'azione che non porta né intelligenza, né volontà e tanto meno intento di trasformazione soggettiva.

Gli Esseri della Natura, animali e piante, non hanno volontà, scopo, intelligenza, progetto, solo l'anima, l'oggetto posseduto dal Dio padrone, ha la volontà e l'intelligenza. La stessa intelligenza che Ravaisson riconosce in sé stesso e nega a tutti gli altri esseri a meno che non siano della sua stessa forma (o del suo stesso colore della pelle, come gli aborigeni australiani).

Ravaisson non diviene, non si è trasformato: non era un bambino che è cresciuto sommando cellula a cellula e la cui struttura emotiva è stata piegata alle esigenze del mondo a cui si è sottomesso. Lui è creato ad immagine e somiglianza del proprio Dio padrone; lui è il Dio padrone frammento del Dio padrone dentro di lui che attraverso l'anima manifesta la sua libertà, la sua intelligenza e la sua volontà.

Il concetto di abitudine in Ravaisson è un concetto strumentale: ci si abitua a… Ma nell'abituarsi a… non c'è trasformazione soggettiva né nel corpo, che è creato da dio, né nell'anima che secondo Ravaisson (e tutti i panteisti) è Dio stesso che da dentro di lui manifesta la sua intelligenza e la sua volontà.

Solo quando l'essere esce dalla "fatalità del mondo", che lo ha messo in essere, attraverso l'anima, l'essere acquisisce coscienza. Come se tutti gli Esseri della Natura non fossero coscienti di sé stessi. Non fossero coscienti dei propri bisogni. Non esercitassero la loro volontà d'esistenza. Non esercitassero progetti e strategie per raggiungere i loro scopi.

La coscienza di cui parla Ravaisson è la coscienza del suo Dio padrone; con questa farneticazione Ravaisson scopre che egli è cosciente del Dio padrone e, al contrario, il mondo non è cosciente del Dio padrone. Dunque, il mondo non ha coscienza e non ha la libertà di sottomettersi ad una morale imposta.

Cosa fa dire a Ravaisson che attraverso il movimento degli organi la vita arriva all'ultimo grado di perfezione?

Il movimento degli organi appartiene all'attività dell'abitare il mondo del singolo soggetto. La vita è sviluppo di singoli soggetti che si trasformano di generazione in generazione. Significa che la vita, che si esprime in quel presente, qualunque sia il presente in cui si esprime, è sempre "perfetta" perché l'espressione in quel presente è il massimo che la vita ha potuto fare come adattamento soggettivo al mondo che ha incontrato come sequenza di trasformazioni che l'ha portata ad esprimersi in quel momento.

Mentre Ravaisson vede la vita muovessi in una scala gerarchica, la vita, al contrario, non sale una sala, ma si sviluppa orizzontalmente. Scopo della vita è costruire le condizioni affinché la materia passi dallo stato di inconsapevolezza allo stato di consapevolezza e, in quello stato, sviluppi sé stessa dilatandosi nel proprio mondo.

Significa che alla vita non interessa la forma da cui si sviluppa la coscienza, purché questa possa nascere e dilatarsi. Diverso è il discorso fatto da Ravaisson che, ignorando l'altro, il mondo e le infinite forme della costruzione della coscienza, come non vuole riconoscere la coscienza e le strategie d'esistenza nelle piante e negli animali, così non la riconosce nell'uomo esattamente come i missionari cristiani, nella loro ferocia, non riconoscevano l'esistenza di una coscienza razionale negli indios finché non si facevano battezzare e sottomettere alla schiavitù che li conduceva nella razionalità.

Ravaisson non è in grado di pensare che tutto il mondo è fatto da coscienze perché, secondo Ravaisson, i soggetti del mondo obbediscono ad una forma automatica di risposte che chiama istinto o fatalità e non scorge in quelle azioni l'intelligenza, la volontà e lo scopo per le quali possono essere state fatte.

Secondo Ravaisson solo l'anima trasmette la coscienza dove l'anima non è ciò che anima, ma è il controllo del Dio padrone sull'individuo che ha creato in questa forma.

Secondo Ravaisson, grazie all'anima che introduce la libertà dell'uomo nato nella natura, la coscienza non solo mette in atto l'azione, ma vede l'azione stessa. Assiste alla sua stessa azione. E' un po' confuso: mette in essere l'atto e vede l'atto. O fa l'atto e ne vede gli effetti o l'atto non appartiene a quella coscienza. L'atto è azione che non può essere visto dall'azione in quanto l'azione si compie in un tempo e nella dimensione razionale. L'azione determina un mutamento che non può essere visto da chi lo compie perché, nel compiere le azioni, l'individuo sospende la propria coscienza razionale. La coscienza razionale può essere a monte dell'azione, ma non è durante l'azione. Si ricompone dopo l'azione. L'azione non vede sé stessa nell'agire, ma vede il dilatarsi di sé stessa nel mondo in cui è divenuta.

L'autore, il dramma, l'attore e lo spettatore possono essere il medesimo essere, ma non nel medesimo tempo. E qui sarebbe bene che Ravaisson anziché affermare la potenza del suo dio, la dimostrasse. Si può affermare l'assurdo, ma l'assurdo affermato non cessa di essere assurdo se non all'interno dell'argomentazione e della dimostrazione. Ciò che in Ravaisson non è.

L'assurdo è dimostrato da Ravaisson quando, nella sua coscienza formata dall'anima, SPERA, senza dati di supporto dai quali trarre la propria speranza, di poter penetrare "le cause della vita". Siamo in pieno delirio del fallito che spera nell'intervento chiarificatore del suo Dio padrone.

Scrive Ravaisson:

Ora, qual è la differenza nelle tendenze generate dalla continuità o dalla ripetizione dell'atto e quelle tendenze primitive che costituiscono la nostra stessa natura?

Qual è la differenza fra l'abitudine e l'istinto?

Come l'abitudine l'istinto è una tendenza a un fine senza volontà e senza coscienza distinta. Solamente, l'istinto è più riflessivo, più irresistibile, più infallibile. L'abitudine si avvicina sempre di più, senza forse arrivare mai, alla sicurezza, alla necessità, alla spontaneità perfetti dell'istinto.

Fra l'abitudine e l'istinto, fra l'abitudine e la natura, la differenza non è dunque che una differenza di grado e questa differenza può essere ridotta e diminuita all'infinito.

Come lo sforzo fra la passione e l'azione, l'abitudine è il limite comune o il termine medio fra la volontà e la natura; e questo è un termine mobile, un limite che si sposta senza cessare e che avanza in un processo irresistibile da un'estremità all'altra.

L'abitudine è dunque per dire, il differenziale infinitesimale o, ancora, il fluire dinamico della volontà nella natura. La natura è il limite del movimento decrescente dell'abitudine. Come conseguenza, l'abitudine può essere considerata come un metodo, come il solo metodo reale, per una serie convergente infinita per l'approssimarsi del rapporto, reale in sé, ma incommensurabile nell'intelletto della natura e della volontà.

Discendendo per gradi nelle più chiare regioni della coscienza, l'abitudine porta la luce nelle profondità e nella sobria notte della natura. La natura acquisisce una seconda natura, qui la sua ragione ultima nella natura primitiva ma che da sola spiega l'intelligenza.

E' infine una natura "naturata" [opera una rivelazione successiva nella natura naturante]. L'abitudine trasforma i movimenti volontari in movimenti istintivi. Ora, nel movimento più volontario la volontà si propone e l'intelligenza si rappresenta la forma esteriore e l'esteriorità del movimento.

Tuttavia tra il movimento nello spazio e la veicolazione della potenza motrice c'è un mezzo riempito da parole che resistono ed è per effetto di questa resistenza che noi abbiamo nello sforzo l'effetto della coscienza oscura. Come la potenza motrice si applica a questi mezzi che resistono? Questo è ciò di cui non abbiamo più alcuna coscienza. A mano a mano che noi regrediamo dalla fine all'origine le tenebre s'inspessiscono. Ora, per l'esercizio ripetuto e prolungato noi apprendiamo a proporzionare la quantità dello sforzo e a scegliere il punto di applicazione conformemente al fine che noi vogliamo raggiungere e nel medesimo tempo svanisce la coscienza dello sforzo.

Così gli organi si abituano talmente al movimento che esigono un esercizio violento o un lavoro pesante che essi divengono per molto tempo incapaci di movimenti più dolci. Un uomo abituato ad eseguire movimenti pesanti con i muscoli delle mani scrive in maniera più incerta di un altro uomo.

Il principio del movimento si è fatto, senza saperlo, un tipo, un'idea d'azione dal quale non può liberarsi ed egli oltrepassa involontariamente, anche convulsivamente, ogni scopo posto al di là del suo fine abituale.

Tratto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 34 – 36 (Traduzione mia)

Quali sono le tendenze primitive che costituiscono la nostra natura? Ravaisson ne afferma l'esistenza, ma non le elenca e nemmeno dimostra il loro primitivismo. Ravaisson immagina che ci siano delle condizioni primitive dalle quali gli atti continui generano delle differenze. L'uomo, creato da Dio e cacciato da paradiso terrestre, è un uomo primitivo. Da questa fantasia Ravaisson fa partire la sua immaginazione. Possiamo pensare che "primitiva" è la situazione che noi consideriamo "di partenza" dalla quale iniziamo a osservare gli effetti di una ripetizione e della continuità di un atto. Qualunque cosa noi possiamo osservare, osserviamo qualche cosa che modifica qualche cosa che è stato modificato da atti e ripetizioni precedenti che si sono ripetuti per un numero infinite di generazioni.

Pertanto, già la premessa di Ravaisson è non solo falsa nella sua presentazione, ma criminale negli effetti della sua applicazione perché, nella pretesa di mettere un limite dal quale partire e che chiama primitivo, di fatto impone un modello al quale appiattisce ogni forma che deve essere, secondo lui, primitiva.

La domanda che ne segue è altrettanto oziosa e strumentale: qual è la differenza fra abitudine e istinto?

Avrebbe dovuto definire: che cos'è l'istinto o che cosa lui chiama istinto. Per istinto Ravaisson vuole significare qualunque azione fatta da qualunque Essere che non si adatta al suo modello pensante. Normalmente il termine "istinto" viene usato dai cristiani per definire i comportamenti che vengono fatti da Esseri che, secondo loro, non hanno l'anima creata dal loro dio, come pensano di averla loro.

Abitudine e istinto, per Ravaisson, sono tendenze ad un fine senza volontà e senza una coscienza distinta. L'istinto è superiore all'abitudine in quanto, per Ravaisson, è più riflessivo, irresistibile e infallibile, per contro l'abitudine si avvicina sempre di più, senza arrivare alla sicurezza, alla necessità e alla spontaneità dell'istinto.

I due oggetti, istinto e abitudine, per Ravaisson sono distinti dal soggetto che proprio per rendere questi due elementi oggetti in sé, l'oggetto, il soggetto che li esprime, non ha passato, non ha trasformazioni, non ha manipolazione del propria struttura psico-fisico-emotiva, non ha intelligenza, non ha progetto e non ha scopo.

L'istinto e l'abitudine sono soggetti di cui parliamo. Non parliamo dell'essere della natura, del soggetto vivente, dell'uomo, parliamo di oggetti in sé che abitano al di fuori della vita e che rappresentano l'oggetto che li manifesta. Ma dal momento che non è possibile dimostrare l'istinto, se non come farneticazione dell'individuo creato da dio, ne segue che sia l'abitudine che l'istinto sono oggetti proiettati nel mondo dal soggetto Ravaisson che li pensa in quanto li individua in sé stesso e nella separazione fra sé stesso e il mondo in cui vive.

L'abitudine per Ravaisson è il meccanismo attraverso il quale il soggetto, statico in ogni suo divenuto e possibilità di divenire, impara ad agire nel mondo. L'individuo acquisisce l'abitudine, non acquisisce la sua struttura psico-fisica. L'abitudine è l'attitudine a ripetere il gesto, non la trasformazione del soggetto in funzione del gesto. L'istinto, per Ravaisson è un'azione priva di intelligenza mentre l'abitudine è il fluire dinamico della volontà nella natura e l'abitudine è il momento di convergenza dell'intelligenza nella natura e nella volontà.

Ne segue che il soggetto non manifesta intelligenza, progetto e scopo e non manifesta la propria volontà nel mondo ma è la natura che determina la volontà e l'intelligenza che convergono nell'abitudine che è distinta dal bisogno, dal desiderio e dalla necessità di soddisfazione. Ne segue che essendo tali oggetti trattati da Ravaisson elementi distaccati dal soggetto che li esprime, non esiste nell'idea di Ravaisson una modificazione del soggetto, ma esistono solo oggetti astratti che agiscono su un soggetto passivo, inadeguato e muto. La volontà e l'intelligenza non sono espressioni del divenuto del soggetto, ma sono espressione di enti esterni al soggetto che si esprimono attraverso il soggetto deresponsabilizzando il soggetto nelle condizioni della sua stessa esistenza.

L'abitudine trasforma, secondo Ravaisson, i movimenti volontari in movimenti istintivi. Peccato che il passaggio fra un movimento non "istintivo" e un movimento "istintivo" c'è tutto quel processo di modificazione, crescita e trasformazione del soggetto che plasma non solo il suo corpo, ma il suo stesso cervello.

L'esercizio prolungato ci trasforma in funzione dell'esercizio prolungato. Non si tratta di abitudine, ma di trasformazione soggettiva che migliora le possibilità in quell'attività. Non è l'abitudine che porta gli abitanti del Tibet a vivere in alta quota, ma è la trasformazione della loro struttura fisica nelle infinite generazioni che ha trasformato il loro corpo e che fornisce questa trasformazione ai loro figli.

Un uomo che ha trasformato il suo corpo in lavori duri e pesanti, ha calli sulle mani che gli tolgono la sensibilità dell'orologiaio. Ciò che si è trasformato è il suo corpo che si è adattato alle variabili oggettive incontrate. Quello stesso uomo può variare ulteriormente il proprio corpo per fare lavori da orologiaio. Non è l'abitudine, ma l'attività trasforma il soggetto che agisce nel mondo. Lo adatta al mondo e lo trasforma in funzione del mondo. Di quel mondo e di quelle condizioni.

Scrive Ravaisson:

Per lo stesso motivo e per la stessa analogia sembra scoprire il segreto di questa vita normale e parassita che si sviluppa nella vita regolare che ha i suoi periodi, il suo corso, la sua nascita e la sua morte; è un'idea o un essere, o non sarà piuttosto un'idea o un essere allo stesso tempo un'idea concreta e sostanziale fuori da ogni coscienza che provoca la malattia?

Non sarà là anche il segreto divino della trasmissione della vita, come d'un'idea creatrice che si stacca e si isola nel trasporto dell'amore per vivere una sa vita propria e fare essa stessa il suo corpo, il suo mondo e il suo destino?

Non sarà che nello stesso modo il segreto della trasmissione della malattia stessa che attende il suo tempo e la sua ora per essere dentro i figli come è stato nel padre e che si propaga con le sue forme e i suoi periodi immutabili di generazione in generazione?

Tratto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 39 – 40 (traduzione mia)

Ravaisson ritiene di scoprire una vita dentro una vita. Una vita dell'"anima" dentro la vita della Natura. Una vita dell'anima, vita nella vita, che trasmette la vita, fa nascere i figli, e nello stesso tempo dispensa le malattie. Ravaisson estende l'ideologia cristiana nella vita naturale e interpreta gli eventi della vita come espressione dell'anima e della volontà del Dio padrone, quel "padre delle anime" che alimenta la vita nella Natura.

Ravaisson ha un solo scopo: distruggere l'uomo in funzione del suo Dio padrone. E' il Dio padrone che porta la vita mediante l'anima; non è un corpo che esprime l'insieme di specificità che lui conchiude nel concetto di anima. E' l'abitudine che porta l'individuo a fare le cose in automatico e non la trasformazione di un corpo e di una psiche che cresce e che si espande nel mondo in cui è venuta in essere.

In Ravaisson, come in tutti gli idealisti, non esiste un corpo che abita il modo, ma tanti cadaveri abitati dall'anima e dalla volontà del Dio padrone.

Scrive Ravaisson:

La forma più elementare dell'esistenza, con l'organizzazione più perfetta, è come l'ultimo momento dell'abitudine realizzato e sostanziato nello spazio in una figura sensibile. L'analogia dell'abitudine ne penetra il segreto e a noi rivela il senso. Fino alla vita multipla e confusa del zoofite, nelle piante, fin dentro il cristallo, possiamo dunque seguire, in questa luce gli ultimi raggi del pensiero e dell'attività. Si disperdono e si dissolvono senza spegnersi, ma lontano da tutte le possibili riflessioni nel vago desiderio dei più oscuri istinti.

Tutta la serie degli esseri non è quindi che la progressione continua di potenze successive di un solo e medesimo principio che si sviluppano in senso inverso nel progresso dell'abitudine. Il limite inferiore è la necessità, il destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore, la libertà dell'intelligenza. L'abitudine discende dall'una all'altra, rapporta i contrari e, nel rapportarli, rivela l'essenza intima e la necessaria connessione.

Tratto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 41- 42 (Traduzione mia)

L'abitudine è, secondo Ravaisson, la forza che congiunge un'ipotetica gerarchia degli Esseri della Natura in una progressione di potenze successive. L'abitudine agisce in "senso inverso" dal limite inferiore di un'ipotetica gerarchia di specie che è determinata dal destino, dalla necessità o se si preferisce dalla spontaneità della Natura, decrescendo come effetti al limite superiore della gerarchia caratterizzato dalla libertà e dall'intelligenza.

L'abitudine si muove fra inferiore e superiore rapportando i contrari e nel rapportarli ne rivelerebbe l'essenza intima.

Ravaisson vede l'abitudine come oggetto in sé stesso. Una categoria di giudizio arbitraria che viene presentata dopo aver privato i corpi della loro intelligenza e della loro volontà, della loro sensibilità del loro desiderio nell'abitare un mondo e di adattarsi ad esso.

Per Ravaisson l'intelligenza non abita nella vita che a lui appare confusa, dello zoofite, nelle piante, nel cristallo: tutto deve essere rapportato a sé stesso. Egli, sé stesso, Ravaisson, è il dio, intelligenza superiore di una specie superiore che si pone come metro di misura della vita. In quest'arroganza immagina di esistere perché la serie di esseri, per lui, altro non è che "la progressione continua di potenze successive" di un solo medesimo principio.

Il panteismo pervade tutta l'opera di Ravaisson in cui tutti gli esseri si sviluppano in senso inverso dell'abitudine, ma tutti gli Esseri sono espressione del medesimo principio creatore manifestato dalla Natura.

Scrive Ravaisson:

L'azione e la passione non sono chiuse fra lo sforzo e l'ultimo grado della spontaneità vitale. Si estendono oltre e più in alto nella volontà e nell'intelligenza. L'influenza dell'abitudine si estende anche a queste regioni più elevate e più pure dello spirito e del cuore.

Ma noi abbiamo determinato la legge dell'abitudine e noi già abbiamo assegnato il principio del tipo originale e le condizioni primarie della coscienza. A noi sarà sufficiente verificare la generalità di questa legge e di questo principio.

Appena l'anima è arrivata alla coscienza di sé, questa non è più soltanto la forma, il fine e nemmeno il principio dell'organizzazione; in essa si apre un mondo che si libera che si distacca sempre più dalla vita del corpo, dove essa ha una sua vita, in un destino proprio per completare il suo fine.

E' a questa vita superiore che sembra aspirare senza poter attendere il progresso incessante della vita e della natura, come sua perfezione e suo bene. Questa vita, al contrario, ha il suo bene in sé; e lei la conosce, la crea e l'abbraccia e nello stesso tempo, suo bene e come bene in quanto tale, assoluta perfezione. Ma il piacere e il dolore hanno le loro ragioni nel bene e nel male. Essi sono i segni visibili.

Qui dunque, in questo mondo dell'anima, si incontra con il vero bene, la forma più vera ella sensibilità; è la passione dell'anima, il sentimento. Al sentimento si oppone l'attività spirituale e morale che persegue il bene o il male mentre il sentimento raccoglie l'impressione. La continuità o la ripetizione deve dunque indebolire per gradi il sentimento come ha fatto con la sensazione; esso si estingue per gradi come nella sensazione il piacere e il dolore.

Essa cambia parallelamente in un bisogno il sentimento che distruggono; essa rende la passione sempre più insopportabile per l'anima. Nello stesso tempo la ripetizione e la continuità rende l'attività morale più facile e più sicura. Essa sviluppa nell'anima non solamente la disposizione, ma la propensione e la tendenza attuale all'azione come negli organi la tendenza al movimento. Infine al fuggitivo piacere della sensibilità passiva esse fanno per gradi succedere il piacere dell'azione.

Così si sviluppa sempre più nel cuore di chi fa il bene e nella misura in cui l'abitudine ha distrutto le emozioni passive della pietà, l'attività caritatevole e le gioie interiori della carità. Così l'amore aumenta per le testimonianze che egli dà a sé; così egli ravviva con la sua fiamma penetrante le impressioni che si spengono e riapre in ogni istante le fonti inaridite della passione.

Infine, nell'attività dell'anima, come nel movimento, l'abitudine trasforma un po' alla volta la volontà d'azione in una propensione involontaria. I costumi e la moralità si fanno in questo modo.

La virtù è dapprima uno sforzo, una fatica; ella diviene solo attraverso la pratica un'attenzione e un piacere, un desiderio che si dimentica o che si ignora e un po' alla volta si approssima alla santità e all'innocenza. Là è tutto il segreto dell'educazione. La sua arte è attirare al bene mediante l'azione e fissarne l'inclinazione. Così si forma una seconda natura. In seno all'anima stessa questo mondo inferiore che anima e che non è lei, si scopre dunque ancora il progresso dell'abitudine che fa ridiscendere l'azione, la spontaneità irriflessiva del desiderio, l'impersonalità della natura e qui ancora c'è la spontaneità naturale del desiderio che è la sostanza medesima e nel medesimo tempo è la sorgente e l'origine prima dell'azione.

Il mondo morale è per eccellenza l'impero della libertà. E lei stessa [libertà] che si impone lo scopo, che si comanda e che si impone l'azione. Ma nello stesso movimento, se è la volontà che pone il bersaglio nello spazio e determina la direzione, non è lei, o almeno non è la volontà riflessa che combina e concerta per anticipare la produzione del movimento e il movimento non può nascere che dal fondo dell'istinto e del desiderio, o dall'idea di natura che si fa essere e sostanza; non meno del mondo morale, l'intelligenza discerne il fine e la volontà se lo propone, ma non è la volontà, non è l'intelligenza astratta che può rimuovere dapprima dalla loro sorgente le potenze dell'anima per spingerle al bene. E' il bene stesso, almeno l'idea del bene che discende in queste profondità generando ed elevando a sé l'amore.

La volontà non fa che la forma dell'amore; la libertà irriflessiva dell'amore ne fa tutta la sostanza e l'amore non si distingue più dalla contemplazione di ciò che ama, né la contemplazione del suo oggetto. Là è la fonte, la base del necessario cominciamento; è lo stato della natura di cui tutte le volontà sviluppa, presuppone la spontaneità primordiale.

La natura è tutta nel desiderio, il desiderio nel bene che lo attira. Così si verifica il rigore di queste profonde parole di un profondo teologo: "La natura è la grazia sollecitante". E' Dio in noi, Dio nascosto, celato perché troppo dentro e in questo profondo intimo di noi stessi dove noi non scendiamo.

Tratto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 42 - 45 (Traduzione mia)

Per Ravaisson è l'anima che giunge alla coscienza di sé. Non l'individuo. Non il suo corpo, ma l'abitatore del cadavere uomo giunge alla coscienza di sé.

L'anima si distingue dal corpo, secondo Ravaisson, ha un proprio destino a sé stante in una vita "superiore" che abbandona la spontaneità vitale e le passioni di un corpo.

La scissione operata da Ravaisson consente a Ravaisson il dominio dei corpi da parte del Dio padrone che determina un'anima, che qualifica un corpo, che nel pensiero di Ravaisson, senza anima, è solo un cadavere.

L'influenza dell'abitudine, secondo Ravaisson si estende nella volontà e nell'intelligenza e in quelle che chiama "ragioni più elevate dello spirito e del cuore".

Che ne è dell'uomo che abita il mondo fra gli spiritualisti?

Nel pensiero di Ravaisson diventa un abitudinario senza passato né futuro; senza un progetto e senza un desiderio perché tutto viene rubato all'uomo da Ravaisson e attribuito all'anima, a quella componente estranea all'uomo, che diventa coscienza di sé, che compie il suo destino e la sua vita indipendentemente dall'uomo.

Secondo Ravaisson l'anima dell'uomo aspira ad una vita superiore senza attendere il progresso della vita e della Natura.

L'idealizzazione delle aspirazioni di Ravaisson che vengono inserite in un'anima che conosce, senza aver vissuto, ha l'esperienza (il suo bene) senza aver abitato il mondo; conosce senza analizzare e criticare; crea la sua vita e l'abbraccia abitando un cadavere. Un cadavere che è costretto al piacere e al dolore non perché lui ha scelto nella vita ma perché è sottomesso alla schiavitù dell'anima che vivendo fra bene e male marchiano quel corpo con i segni visibili di bene e male.

Così i macellai, i massacratori altro non fanno che marchiare i corpi con i segni visibili del bene e del male commesso dalle loro vittime. I carnefici sono giustificati nell'esecuzione di un destino che le vittime hanno voluto perché le loro anime hanno scelto fra bene e male. Qui sta una delle atrocità del pensiero di Ravaisson.

Il mondo dell'anima di Ravaisson è un mondo separato dalla vita. Un mondo di libertà diverso dal mondo in cui le persone vengono allevate e addestrate come lui pensa vadano allevati e addestrati all'abitudine dell'obbedienza gli animali per il proprio uso e consumo. Un mondo quotidiano fatto di sofferenza e di schiavitù in cui l'uomo che lo vive aspira a quel distacco che Ravaisson immagina come mondo dell'anima e della libertà dalle sofferenze essendo un ideale mondo del bene: il mondo del padrone.

Al sentimento struggente di una quotidianità che chiede partecipazione e relazione, Ravaisson oppone l'attività spirituale del padrone di uomini che liberato dal gravame della quotidianità vive in un mondo dello spirito. Uno spirito che si avvale della volontà per far diminuire per gradi il desiderio e il sentimento della vita. La volontà di autodistruzione che annienta la volontà d'esistenza ed estingue per gradi il desiderio e il sentimento portando l'Essere Umano all'annullamento esistenziale.

La passione di vivere, per Ravaisson, sarebbe sempre più insopportabile per la sua anima. Ma allora non è passione di vivere, ma sofferenza di vivere. Incapacità ad affrontare la vita e bisogno di autoannientamento per fuggire al dolore che l'incapacità produce in un corpo che abita in maniera inconsapevole e inadeguata un mondo da cui la sua struttura psico-emotiva è separata.

Quel desiderio di autodistruzione che nel cristiano si trasforma in ideologia apocalittica, in visione messianica dell'avvento di un mondo dell'anima che passa attraverso la distruzione del mondo in cui viviamo.

Cosa rende più facile e sicura la vita morale? L'addestramento della bestia a rinunciare a vivere e abitare il mondo e la costrizione all'obbedienza che si trasforma in abitudine ad obbedire. Quella tendenza ad obbedire senza pensare, senza la propria volontà, l'obbedienza automatica che è l'ideale dell'abitudine di Ravaisson come superamento della volontà e dell'intelligenza d'azione e di autodeterminazione dei soggetti nella loro vita.

Dopo aver insultato gli animali e le piante privando le loro strategie d'esistenza e le prospettive in cui hanno costruito il loro divenire, sia personale che di specie, Ravaisson, a bastonate, costruisce l'abitudine all'attività morale. Così si sviluppa nel cuore l'attività del bene. A bastonate, costruisce nel cuore dell'uomo l'attività del bene che consiste non solo nel subire le bastonate che inducono al bene, ma a bastonare a propria volta il "fuggitivo piacere della sensibilità passiva, fanno per gradi succedere il piacere dell'azione".

Le emozioni "passive" vengono sostituite dall'attività, dalla volontà che agisce come carità dando testimonianze a sé stessa e alimentando le fonti inaridite della passione. Ma come e quando erano inaridite le fonti della passione amorosa, dell'abitare il mondo, di compartecipare al mondo se non quando l'individuo ha usato la volontà contro sé stesso per alimentare un ideale dell'anima che era un ideale inumano perché sottometteva tutto il suo essere ad una morale estranea?

Le attività autodistruttive cortocircuitano le emozioni dentro all'uomo ed egli si immagina parte di un tutto sognando di possedere un'anima in un corpo che pensa come cadavere nauseabondo. Come Paolo di Tarso, disperato per il proprio fallimento esistenziale supplicherà: "Chi mi libererà da questo corpo mortale?". Eppure, il suo delirio era iniziato con un corpo che veniva innalzato al cielo perché non sarebbe mai morto. La falsa promessa ha raggiunto il suo scopo costringendolo in quella dimensione da delirio di onnipotenza che giorno dopo giorno lo ha portato al fallimento esistenziale e lo costringe a desiderare di essere l'anima che lascia quel corpo mortale. Ma non esiste un'anima e il suo fallimento esistenziale, come quello di Ravaisson, porta alla distruzione di Paolo di Tarso come al fallimento di Ravaisson. Non fu gratis il delirare nella propria esistenza.

La virtù non è uno sforzo. Se la virtù richiede uno sforzo, allora non è una virtù, ma una violenza imposta a cui il violentatore chiede di adeguarsi. Con la violenza sull'infanzia si può costringere l'infanzia a sottomettersi a principi morali inumani. La distruzione dell'uomo viene chiamata innocenza dal violentatore di psiche umane. Distruggere uomini in funzione della morale del Dio padrone porta alla santità venerata da chi costruisce sottomissione mediante la violenza.

L'arte dell'educazione, per Ravaisson altro non è che una lunga scia di sangue e di dolore mediante il quale egli costringe i ragazzi a fissare la loro inclinazione nell'obbedienza a principi inumani e irreali. In questo modo costruisce una seconda natura, la natura dell'anima contro la natura del corpo. Un conflitto che si risolve soltanto nella malattia psichiatrica, nei sensi di colpa, nell'insicurezza dell'individuo davanti ai problemi del mondo e della vita.

Secondo Ravaisson, torturare una persona è dapprima una fatica che diviene, attraverso la pratica dell'attenzione, un piacere e un desiderio che porta all'innocenza dalla colpa di tortura e alla santità per aver torturato le persone. La tortura diventa arte del bene. Lo stupro dell'infanzia diventa arte del bene. E' Ravaisson che afferma che nulla cambia nel bambino violentato. Attraverso la violenza Ravaisson fissa l'inclinazione alla violenza fissando la seconda natura dell'anima contro la natura del vivere delle persone. E' il progresso dell'abitudine a fare della violenza il metodo della violenza in spontaneità irriflessiva del desiderio di fare violenza.

Se non parla della violenza, della virtù della violenza per ottenere obbedienza e sottomissione ad una morale imposta, di che cosa starebbe parlando Ravaisson?

Il mondo morale è per eccellenza l'impero della schiavitù, dell'odio e della sottomissione. E' il mondo in cui si violentano le pulsioni esistenziali degli individui per farli aderire a modelli preconfezionati attraverso i quali il dominatore può legittimare il proprio dominio fatto di violenza e sopraffazione.

E' proprio perché esiste la violenza e la sopraffazione che ci permette di individuarne l'origine in una morale imposta che riconosciamo le spinte intime di libertà che induce gli Esseri Umani a rimuovere ogni ostacolo alla loro vita e ogni costrizione alle loro passioni. Che poi la veicolazione della passioni vada mediata con la veicolazione delle passioni degli altri individui, si chiama vivere insieme che non ha nulla a che vedere con la morale imposta da qualche fanatico che si identifica con un farneticante Dio padrone.

Nell'insieme di pulsioni che Ravaisson chiama istinto, nel desiderio, nella Natura come nella libertà che è necessità dell'Essere che la manifesta, c'è sempre volontà e intelligenza perché il desiderio di libertà senza la volontà non diventa azione che libera il soggetto dalle costrizioni della morale imposta. Per rimuovere le catene che Ravaisson vuole mettere alla psiche e alle emozioni degli uomini serve volontà che alimenti il desiderio di veicolare le proprie emozioni nel mondo in cui si è nati.

L'uomo va verso il benessere, il piacere, e il benessere e il piacere raggiunto dall'uomo si chiama: BENE! Non esiste altro bene che non quello che procura piacere all'uomo e non c'è altro bene che non quello derivato dal piacere di rimuovere gli ostacoli morali imposti all'uomo mediante un concetto criminale come il concetto di anima.

Il padrone, il trafficante di schiavi chiama bene tutto l'insieme ideologico con cui produrre sottomissione e legittimare la sua schiavitù. In primis, le condizioni morali attraverso le quali vengono costretti gli uomini nello stato di schiavitù più o meno conclamata, sono il MALE. Le condizioni morali equivalgono a catene e il fatto che il padrone, il gestore delle catene chiami quelle catene Bene, non è solo ridicolo, ma ingiurioso nei confronti dell'umanità. Una schiavitù che il padrone chiama "amore" ma, anche con un nome diverso, la merda continua ad avere lo stesso odore.

Perché esista una "spontaneità primordiale" è necessario che esistano dei primordi, ma se non si definiscono i primordi, non esiste nemmeno la "spontaneità primordiale" che ad una attenta analisi è solo un esercizio retorico con cui lo schiavista indica alcune pulsioni che gli sono favorevoli al suo trasformare gli uomini in schiavi.

Ravaisson dà per scontato che tutti intendano il termine "amore" come lui lo intende. Non c'è amore là dove i corpi vengono violentati in funzione di una morale predeterminata a cui far aderire le scelte di quei corpi. Non può esistere amore nella contemplazione. Un soggetto contempla, ma il fatto che contempli non significa che ami né significa che sia amato dall'oggetto contemplato. La contemplazione indica l'azione del contemplare non l'intenzione per cui si contempla, Chi ama contempla o è contemplato? Sarebbe interessante che Ravaisson rispondesse e spiegasse perché quella condizione presuppone la spontaneità primordiale; primordiale di cosa? Lasciamo che sia il lettore a proiettare sul termine primordiale la sua idea di primordiale: e se i lettore non ha un'idea di primordiale?

La natura vive di desiderio. La natura è desiderante. I soggetti, ogni singolo soggetto è un soggetto desiderante e proprio perché il singolo soggetto è un soggetto desiderante forma la natura che desidera.

I soggetti della Natura, e per conseguenza la natura, perché la Natura è solo perché ci sono i singoli soggetti, sono attraversati dal desiderio di espansione nell'oggettività in cui sono venuti in essere. Il soggetto, mediante la sua intelligenza pensante, anche nel cristallo o nel singolo essere unicellulare, progetta la sua esistenza e la soddisfazione del suo desiderio. Per contro, l'individuo che non è in grado di divenire agendo per espandere sé stesso, deve appropriarsi di altri Esseri ed egli diventa il Dio padrone che sollecita gli Esseri a sottomettersi al suo dominio. Quell'affermazione aberrante di un teologo citata da Ravaisson, nel suo significato reale significa: "La natura è oggetto di possesso che viene sollecitato a riconoscere sé stesso in quanto oggetto di possesso!"

Il questo gioco del possesso Ravaisson incontra il Dio padrone in lui che lo sollecita a sottomettersi alla morale imposta sventolando sotto il suo naso la bandiera della virtù della sottomissione e dell'obbedienza in cambio alla rinuncia della sua volontà d'esistenza. Quel Dio padrone in Ravaisson è celato, proprio dentro di lui, ma proprio celato perché frutto di immaginazione che desidera la sottomissione e non è oggetto d'uso nella vita quotidiana.

Scrive Ravaisson:

Tutte le percezioni, tutte le concezioni distrutte, involontarie e per conseguenza passive a un certo punto, a poco a poco si cancellano se si prolungano e si ripetono. Non sparisce completamente come la sensazione o il sentimento, ma la percezione diventa sempre più confusa e sempre più sfuggente alla memoria, alla riflessione e alla coscienza.

Al contrario, più l'intelligenza e l'immaginazione si esercitano alla sintesi successiva delle idee o delle immagini più gli è facile; più diventa rapida, sicura e precisa; più, nel medesimo tempo diventa una tendenza indipendente dalla volontà. I movimenti passivi dell'intelligenza torneranno sempre più verso l'inclinazione. Non sono, come si è supposto, le idee e le immagini che si chiamano per associarsi, che si attirano o che si precipitano le une verso le altre con una velocità crescente come dei corpi gravitanti nello spazio. Nelle immagini e nelle idee non c'è movimento, né il principio del movimento.

Non è l'associazione "l'associazione delle idee" che spiega l'abitudine; è per la legge, per il principio dell'abitudine che si spiegano le associazioni delle idee.

Questa inclinazione in cui l'attività dell'intelligenza e dell'immaginazione si assorbe per gradi, è la spontaneità materiale sviluppata nel movimento; trascina come una rapida corrente l'attenzione, la volontà, la coscienza stessa e nel medesimo tempo riparte tutte le parti in una diversità infinita di idee e di immagini indipendenti come in una vita diffusa e multipla, l'unità e l'individualità dell'intelligenza.

Così nel torrente della circolazione subentra sempre più all'impulso primario del cuore, nella misura che si allontana, la tonicità propria dell'energia diffusa delle ramificazioni del sistema vascolare. Infine, questo stato di "natura", a cui l'abitudine riduce il pensiero, come gli ha ricordato la volontà e il movimento, è la condizione e la sorgente primaria di tutto il pensiero distinto come è di tutte le volontà espresse e di tutto il movimento determinato.

Come decidere di prendere nel presente o di riprendere nel passato un'idea assente? O si cerca ciò che si sa, o non si sa ciò che si cerca. Prima dell'idea distinta che cerca la riflessione; prima della riflessione è necessaria qualche idea irriflessiva e indistinta che sia l'occasione e la materia da dove si parte e su cui ci si appoggia. La riflessione si piegherebbe invano su sé stessa inseguendosi e sfuggendosi all'infinito.

Il pensiero riflessivo implica dunque l'immediatezza antecedente di qualche intuizione confusa o l'idea non è distinguibile dal soggetto che la pensa. E' nella corrente non interrotta della spontaneità involontaria che scorre silenziosa in fondo all'anima che la volontà stabilisce dei limiti e determina delle forme.

In tutte le cose la necessità della natura è la catena sulla quale trama la libertà. Ma è una catena in movimento e vivente, la necessità del desiderio, dell'amore e della grazia.

Riassumendo, l'intelligenza e la volontà si rapportano a dei limiti, a dei fini e a delle estremità. Il movimento misura gli intervalli, L'intervallo implica la continuità indefinitiva mente divisibile della metà. La continuità implica il medio termine indivisibile o, in tutta l'estensione del mezzo a qualche distanza che sono l'uno dall'altro estremo, gli estremi si toccano e i contrari si confondono.

Tratto da: Ravaisson, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française 1894; Librairie Arthème Fayard 1984 da pag. 46 - 48 (Traduzione mia)

Tutta la percezione della primissima infanzia come percezione involontaria e per conseguenza, passiva, secondo Ravaisson, a poco a poco si cancella se si prolungano e si ripetono diventando abitudine.

Tutto ciò che è il vissuto, l'esperienza, si interiorizza nell'individuo che si trasforma proprio accumulando esperienza. Non è vero che si cancella la percezione della prima infanzia, si cancella l'attenzione sul percepito in quanto il percepito, concorrendo a trasformarci, viene acquisito come trasformazione del soggetto. Ma noi continuiamo a percepire perché è l'azione del percepire che ci trasforma, non l'oggetto che percepiamo che può solo modificare la qualità dell'emozione che suscita. Il fatto che nella primissima infanzia si è passivi e la trasformazione soggettiva, come risposta alle sollecitazioni del mondo, sia automatica e vissuta come necessaria per la sopravvivenza mentre in età adulta, qualora diventiamo effettivamente adulti, gli adattamenti vengono guidati dalla volontà, dall'intento, dalla necessità, dal desiderio e dai progetti esistenziali, non cambia che sia comunque l'attività di percepire e di costruire relazioni nel mondo che continua la nostra trasformazione.

E' il corpo che percepisce. La memoria del percepito è assolutamente relativa, riguarda solo una minima parte di quanto percepiamo e nulla è confuso, ma tutto è chiaro nella nostra struttura emotiva dalla quale è separata la coscienza razionale.

Tutto il percepito è chiaro alla struttura emotiva perché la struttura emotiva si è adattata fagocitando tutte le elaborazioni percepite del mondo e la sua trasformazione non necessita della memoria razionale. Alle nostre emozioni non interessa se abbiamo costruito una relazione sul monte Baldo o sul monte Rosa. Alle nostre emozioni interessa la relazione che le ha trasformate. Dove la relazione è avvenuta? Nel mondo emotivo al di fuori dello spazio e del tempo. Al di fuori della memoria razionale e all'interno della memoria esistenziale che ha nella struttura emotiva e nella sua trasformazione la memoria del vissuto.

La volontà è vista da Ravaisson come uno sforzo innaturale che viene superato dall'abitudine. L'innaturalità, e per conseguenza inumanità dell'azione in cui è necessario usare la volontà, viene superato dall'abitudine che porta a compiere gesti inumani che diventano più facili nella sintesi fra idee e azioni. In questa attività viene trasformato il soggetto. Le scelte della volontà, usate contro i bisogni e i desideri del soggetto, provocano una distruzione di parte del soggetto in funzione dell'obbiettivo da raggiungere. Il soggetto si trasforma. La trasformazione non è la capacità di agire del soggetto nel mondo, ma è la capacità della morale imposta che agisce nel soggetto affinché la riproduca nel mondo in modo da non percepire il dolore della propria inadeguatezza. Cose come una virtù, vuota di significato, o una morale i cui contenuti vengono affermati ma mai definiti nelle relazioni col mondo, diventano una sorta di aggettivi con cui qualificare "inclinazioni" o manifestazioni di "intelligenza superiore" o, ancora, bisogni della vita dell'"anima" che vive una sua vita dentro la vita del soggetto della natura.

Non sono i bisogni dell'uomo che chiamano i bisogni del mondo per associarsi, non sono le idee del mondo dell'uomo che richiamano le medesime idee della vita con cui costruire le relazioni, ma è la violenza impositiva della morale, imposta mediante la volontà che diventando pratica abituale nell'individuo costringe l'individuo a cercare le associazioni morali e a riprodurle. In questo contesto si comprende l'attività criminale del pensiero di Ravaisson. Un pensiero che riafferma il pensiero cristiano che vede la morale come oggetto manifestato dal suo Dio e per quella morale viene legittimata tutta la violenza della distruzione dell'uomo. La morale trionfa, l'uomo deve essere distrutto affinché tale morale trionfi.

Per Ravaisson il movimento trascina come una corrente l'attenzione, la volontà e la coscienza come se nel suo pensiero il soggetto sia il movimento come oggetto in sé senza attribuzione che trascina un'attenzione senza attribuzione, una volontà senza una manifestazione e una coscienza separata da un mondo che viene trascinata passivamente dal movimento. In questo quadro: cosa resta dell'uomo?

L'uomo non è nel movimento, l'uomo non manifesta la sua volontà d'esistenza, l'uomo non è l'attenzione che manifesta nel mondo, l'uomo non è una coscienza razionale e una coscienza esistenziale. L'uomo sparisce nell'orizzonte di Ravaisson che mette al centro della vita il Dio padrone, l'anima e manifestazioni vitali che vuole oggettivare separandole dai soggetti da cui vengono manifestate.

Dovrebbe spiegare Ravaisson come si può parlare di intelligenza senza le azioni nelle quali lo spettatore può ravvisare l'intelligenza. Le azioni sono atti che possono essere discussi come atti in sé, ma quando noi assistiamo con i nostri sensi ad azioni, assistiamo sempre ad un soggetto che agisce e dall'azione interpretiamo l'intelligenza e la volontà del soggetto che agisce. Far sparire l'uomo dall'orizzonte della vita per far diventare oggetti di discussione le sue manifestazioni equivale a depersonalizzare l'uomo e a predisporlo perché diventi uno schiavo che viene privato della sua intelligenza, della sua volontà, della sua libertà, dei suoi desideri per essere sottomesso ad una morale che viene imposta mediante atti di violenza nei quali scorgiamo una volontà di sottomissione, un'intelligenza volta a sottomettere, una libertà di stuprare e violentare l'uomo che veicola il desiderio di trasformare l'uomo in un oggetto di possesso.

Così nel torrente della circolazione della volontà di schiavitù subentra sempre una morale che viene imposta all'uomo trasformato in schiavo di quella morale. Non una morale che nasce dalle relazioni fra l'uomo e il mondo, ma una morale imposta dal Dio padrone, da un padrone, al quale l'uomo viene costretto a sottomettersi privato della sua intelligenza, della sua volontà d'esistenza, della sua coscienza esistenziale e razionale affermando che la morale del Dio padrone è la morale della sua anima che vive una vita dentro ad una vita dell'uomo della natura.

L'uomo prende le idee dalla vita, dal suo abitare il mondo. Un'idea manifestata razionalmente nel passato può diventare un'idea attuale se quest'idea è manifestata da uomini che ne hanno l'esigenza nel presente. Sono i bisogni dell'uomo attuale che manifestano il vivere e l'abitare il mondo che uno spettatore, inetto e infingardo, ponendosi al di fuori della vita, chiama idee.

Noi che abitiamo il mondo rinnoviamo continuamente idee che già furono e nuove idee che diventano. Sono idee importanti perché attuali, manifestate in un presente e sempre presenti perché rispondono ai bisogni dell'uomo. Solo il padrone, il trafficante di schiavi, usa cercare delle idee per trafficare meglio in schiavi. Trucchi retorici che chiama idee. Riaffermazione del Dio padrone ogni volta che la pratica di vita nega il Dio padrone. C'è sempre qualcuno che si inventa la realtà del Dio padrone e la giustifica attraverso una retorica soggettiva che pretende di oggettivare. Quest'oggettivazione, costui, la chiama "idea", ma è solo un volgare trucco retorico il cui scopo è giustificare un fallimento esistenziale. Giustificare l'incapacità dell'individuo di abitare il mondo e pretendere di gestire schiavi che gli permettano la sopravvivenza.

All'uomo non interessa se l'idea con cui si giustifica lo schiavismo è stata formulata da Aristotele, Gesù, Platone o Plotino. Nella misura in cui è manifestata nel presente, quest'idea di schiavitù è propria di chi la manifesta nel presente.

Confuso può essere il bisogno e il desiderio di trafficare in schiavi, poi si forma l'idea retorica che giustifica il trafficare in schiavi e ciò che era il bisogno dei padroni di schiavi ebrei viene formulata come idea nell'ebraismo "Non avrai altro padrone che me. Perché io sono il tuo padrone che ti ha tratto dall'Egitto casa di schiavitù." Il desiderio di trafficare in schiavi elabora una giustificazione mediante la quale trafficare in schiavi e questa giustificazione diventa l'idea da imporre, mediante la morale, agli schiavi che vanno comperati e venduti. Pecore del gregge da condurre la macello della vita.

Rubata la volontà, l'intelligenza, il sentimento, la passione, il desiderio dell'uomo che abita il mondo, lo schiavista controlla l'uomo mediante la farneticazione di un'anima che scorrerebbe dentro di lui e che giustificherebbe la sua sottomissione alla morale dello schiavista. La necessità degli Esseri che danno vita alla Natura è la forza che spinge alla libertà dall'imposizione di una morale voluta da un Dio padrone per imprigionarli. La necessità, essenza stessa della vita a cui l'essere della Natura, ogni Essere, dall'unicellulare, alla pianta, all'animale e all'uomo (comunque si voglia dividere o classificare ogni specie della Natura), alla necessità che lo ha spinto a venir in essere somma la propria volontà d'esistenza che lo porta ad espandersi nel mondo. Sia il mondo come spazio che il mondo come tempo, trasformazioni, aggiungendo le trasformazioni personali alle trasformazioni delle generazioni alle quali, generazione dopo generazione, ogni generazione lasca in eredità i propri atti di volontà con cui ha manipolato la propria struttura emotiva come patrimonio ai propri figli.

Un corpo che abita il mondo. Un corpo SACRO che gli spiritualisti e gli idealisti vogliono trasformare in un cadavere dando la gestione della struttura emotiva del corpo, che loro chiamano anima, alla ferocia inumana del loro Dio padrone.

Riassumendo, possiamo dire che la volontà è quanto aggiunge il vivente della Natura alla necessità che ha fatto germinare la sua coscienza esistenziale. Le sue azioni mediante le quali veicola i suoi desideri e i suoi bisogni avvengono nel mondo del tempo e si riflettono nel mondo razionale come trasformazione del soggetto che percepisce e agisce nel mondo. Il soggetto vive, abita il mondo, affronta le sue contraddizioni e mediante il suo corpo costruisce il proprio corpo luminoso. Non ci sono estremi che si toccano, non ci sono padroni che determinano morali o etiche o che siano padroni di anime. Questa è fantasia criminale di chi vuole sottomettere il divenire dell'uomo per poterlo distruggere al di là della retorica con cui ha giustificato nel corso di due millenni il diritto del Dio padrone di stuprare l'uomo e il suo divenire.

Marghera, 29 gennaio 2015

Nota: Le citazioni di Ravaisson sono tratte, De l'Habitude in Corpus des Oeuvres de philosophie en langue Française 1894; Librairie Arthème Fayard 1984 (Traduzione mia)

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

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Quando un percorso sociale fallisce o esaurisce la sua spinta propulsiva, è bene tornare alle origini. Là dove il pensiero sociale è iniziato, analizzare le incongruenze del passato alla luce dell'esperienza e abbattere i piedistalli che furono posti a fondamento del percorso sociale esaurito.

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Marghera, 28 gennaio 2015

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

Tel. 3277862784

e-mail: claudiosimeoni@libero.it

La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.