Nietzsche e Dioniso nel delirio bacchico
la percezione razionale e la percezione dionisiaca

di Claudio Simeoni

Settimo volume:
cristianesimo, nazi-fascismo, identitarismo e sovranismo
la genesi dell'assolutismo

capitoli del settimo volume della Teoria della filosofia aperta

Nietzsche e Dioniso nel delirio bacchico

Nietzsche è profondamente influenzato dalla tragedia delle Baccanti di Euripide. Ne è coinvolto al punto tale che la tragedia non è un'opera da guardare con occhio culturale, ma è un'opera da vivere con le emozioni. Un'opera che alimenta le emozioni di Nietzsche che non esita ad identificarsi in Dioniso nella sua lotta contro Pènteo. Dioniso, il delirante, contro Pènteo, la sofferenza. Per il Nietzsche della "Nascita della tragedia" Dioniso è assimilato alla musica di Wagner nella Cavalcata delle Valchirie.

Il discorso sulla follia delle Baccanti è fatto da Euripide in modo da giustificare la reazione di Pènteo che intende riportare all'ordine le baccanti in nome di un Comando Sociale di cui egli è il signore e padrone.

La ribellione al Comando Sociale non è ammessa. Pènteo si ritiene in diritto di sterminare le baccanti per ripristinare l'ordine costituito.

In questa citazione, dalle Baccanti di Euripide, è descritto il senso della follia bacchica che tanto ha affascinato Nietzsche.

Nunzio [entrando]

Pènteo, sovrano di Tebe, ho lasciato il Citerone, dove fiacca sempre una candida neve, e sono qui.

Pènteo:

Qui con quale notizia tanto urgente?

Nunzio:

Ho visto le Baccanti auguste, che in preda a un estro hanno fiondato lungi di qui le bianche membra. Vengo a dire a te, signore, e alla città che cose tremende fanno, che vanno al di là d'ogni prodigio. Ma vorrei sapere se ciò che accade là posso svelarlo liberamente o devo attenuare il mio racconto: temo la veemenza, sire, del tuo carattere, la collera impetuosa, il tuo fare da tiranno.

Pènteo:

Parla, ché avrai l'impunità. Chi è giusto non merita la collera. Ma quanto più grave sarà quello che dirai delle Baccanti, tanto più costui, che questi modi suggerì alle donne, avrà da me le meritate pene.

Nunzio:

Le mandrie delle bestie pascolanti stavano ormai salendo verso il ciglio del colle, quando il sole coi suoi raggi si leva a riscaldare il suolo. lo vedo tre compagnie di cori femminili; a capo della prima c'era Autònoe, della seconda Agave, madre tua, e Ino della terza. Tutte quante dormivano, le membra abbandonate, quali appoggiando la schiena a una chioma d'abete, quali tra foglie di quercia, col capo a terra, sparpagliate a caso, ma con decoro: non erano affatto, come tu dici, ubriache di vino e di fragore d'auli, non andavano a caccia di piacere in solitudine nella selva. Tua madre, ritta in mezzo alle Baccanti, gridò, che scotessero dal sonno il corpo, non appena udì i muggiti dei bovi. Quelle, allora, scrollato il sonno profondo dagli occhi, balzarono su in piedi - uno spettacolo d'armonioso decoro: vecchie, giovani, vergini ancora non piegate al giogo. Prima i capelli sciolsero sugli omeri, e quelle a cui s'era allentato il nodo si strinsero le nèbridi sul corpo, e cinsero le pelli picchiettate coi serpi che lambivano le gote. Altre, tenendo in braccio una gazzella o i cuccioli d'un lupo, li nutrivano di bianco latte - quelle fresche ancora di parto che, lasciati i pro- pri figli, avevano la poppa gonfia; e serti d'edera si ponevano sul capo, o di quercia o di smilace fiorito. Ci fu chi prese il tirso e ne percosse una pietra, da cui, come rugiada, stille d'acqua sgorgarono, chi invece batté col ramo il suolo, ed in quel punto una fonte di vino sprigionò il dio; chi aveva voglia d'una candida pozione, con la punta delle dita incideva la terra ed ecco, aveva una gran copia di latte, e dai tirsi d'edera distillavano correnti dolci di miele. Se tu di persona avessi visto tutto questo, al dio che offendi avresti rivolto preghiere. Noi, bifolchi e pastori, ci adunammo per discutere quello che accadeva. Allora un tale, che va in giro e bazzica la città, che sa dire due parole, cosi parlò: «Voi tutti che abitate le plaghe auguste dei monti, ci state a dar la caccia ad Agave, la madre di Pènteo, per portarla via dall'orgia, così rendendo un buon servizio al re?» La proposta ci parve buona, e allora ci nascondemmo in agguato nel folto della macchia. Agitando il tirso, quelle, al momento fissato, si lanciavano nel sacro rito, invocando, a gran voce e insieme, Bacco, figliolo di Zeus. E tutta la montagna baccheggiava e le fiere - una corsa che travolse ogni cosa, ché nulla restò fermo. Ecco Agave che balza accanto a me: anch'io per agguantarla feci un salto fuori dal folto dov'ero nascosto. Lei levò grido: «Cagne mie veloci, questa gente ci dà la caccia: avanti; seguite me, seguitemi brandendo il tirso, come un'arme, nelle mani». Noi ci demmo alla fuga ed evitammo d'essere dilaniati dalle Mènadi; ma quelle a mano armata s'avventarono sopra i vitelli al pascolo sull'erba. Ne potevi vedere una tenere, le braccia aperte, una giovenca florida, mugghiante; e altre, intanto, dilaniavano vitelline. Vedevi fianchi e zoccoli biforcuti scagliati in alto, in basso, penduli dagli abeti ed insozzati di sangue che gocciava. Ed anche i tori violenti e già protesi nella furia delle cornate, calavano a terra sotto innùmeri mani di fanciulle. Ed erano spogliati dell'involucro della carne, più presto assai d'un battito di palpebre degli occhi tuoi sovrani. Poi, librandosi come uccelli, vanno di corsa nelle vaste piane, lungo il corso dell'Asopo, che producono ricca messe di spighe pei Tebani. Come nemici piombano su Isia ed Eritra, al di qua del Citerone, mettendo tutto a sacco; dalle case rapivano bambini, e tutto quello che si mettevano in spalla aderiva senza legacci e non cadeva al suolo nero, né bronzo né ferro; sui riccioli c'era un fuoco che non ardeva. I villici rapinati da loro s'infuriavano, prendevano le armi: lo spettacolo fu allora. impressionante, sire. Il ferro di quelle lance non s'imporporava; loro invece, scagliando dalle mani i tirsi, li ferivano, volgendoli in fuga, loro, donne, quelli, ch'erano uomini: ma con loro c'era un dio. Poi tornarono al luogo donde avevano preso l'abbrivo, a quelle fonti che per loro aveva sprigionato il dio. Si lavarono il sangue, ed alle gote forbivano le stille con la lingua i serpenti, ridando a quelle carni splendore. Ora quel dio, chiunque sia, tu devi, sire, accoglierlo in città. Molti e grandi i suoi pregi, ma sugli altri, a quanto sento dire, uno ce n'è: il dono della vite, che sopisce i dolori degli uomini. Se il vino non c'è, non c'è Afrodite e non c'è più per i mortali nulla di piacevole. [Esce.]

Corifera:

Temo di pronunciare una parola troppo libera al re, però la dico: non è inferiore a nessun dio, Dioniso.

Pènteo:

Ecco che ormai come un fuoco divampano gli eccessi delle Mènadi, motivo assai grave di biasimo pei Greci. Non è più il caso d'indagare. [A un servo:] Va', corri alle porte Elettre e di' che tutti gli opliti con gli scudi e quanti montano i cavalli veloci e quanti armeggiano con le pelte di cuoio o dànno mano alle corde degli archi si presentino per affrontare con me le Baccanti. Subire quello che adesso subiamo da donne, passerebbe ogni misura.

Dioniso:

Le mie parole non ti persuadono, Pènteo. Tu mi maltratti, ma t'avverto: quello che devi fare non è prendere le armi contro il dio, ma stare cheto. Che tu cacci le Mènadi dai monti dell'orgia, Bacco non lo ammetterà.

Pènteo:

Non è meglio che, invece d'ammonirmi, visto che sei sfuggito, ti conservi lo scampo? O vuoi che ti punisca ancora?

Dioniso:

Essendo un uomo, sacrificherei al dio, piuttosto che recalcitrare, trasportato dall'ira, contro il pungolo.

Pènteo:

Si, sacrificherò vittime femmine (lo meritano), strage ne farò nelle pieghe del Citerone, a iosa.

Dioniso:

Sarete tutti vòlti in fuga, e l'onta sarà qui, nel voltare vostri scudi bronzei di fronte ai tirsi delle Mènadi.

Pènteo:

Non c'è niente da fare con costui: subisca o agisca, tacere non sa.

Dioniso:

Tu! C'è una via per sistemare tutto.

Pènteo:

Facendo che? lo schiavo alle mie schiave?

Euripide, Le Baccanti, da Tutte le Tragedie, Newton e Compton Editori, 1977, p. 306-309

Il senso della follia in Euripide nelle Baccanti è la ribellione al potere costituito. Il Comando Sociale è un potere estraneo ai cittadini che impone ad uomini e donne l'obbedienza.

Ma poi giunge la "follia" di Dioniso e, con essa, la ribellione all'oppressione che il Comando Sociale impone alle persone. La tirannia è il male e l'invasamento dionisiaco rimuove la paura da uomini e donne sottomessi. Li rende forti, potenti nelle loro decisioni. Il delirio dionisiaco non è un'infatuazione collettiva, ma è una modificazione della capacità soggettiva di percepire il mondo e la realtà. Il vino appare più come un "oggetto simbolo" che non il soggetto che, provocando l'ebrezza, alimenta il delirio che fa descrivere soggettivamente una realtà diversa.

Non è il vino o la droga che rende deliranti le baccanti, ma è l'insorgenza emotiva. Lo spettatore, in cui l'insorgenza emotiva non è in grado di occupare la sua coscienza, si sente estraneo alla consapevolezza del delirio. Questa alienazione soggettiva lo costringe a cercare le cause dei comportamenti deliranti, a cui assiste, in oggetti diversi dalle persone che delirano. Dice: "Il vino, la droga ha portato queste persone a delirare. Se io avessi assunto tanto vino o quella droga, anch'io potrei delirare come loro.". Lo spettatore che non delira dice: "Non sono io che non riesco a far sorgere l'emozione dentro di me, ma io non ho assunto vino o droga!"

E' il senso del dialogo fra Pènteo e il vecchio Cadmo e Tiresia. Pènteo è impossibilitato a percepire una realtà diversa da quella che controlla col suo potere di tiranno mentre Cadmo e Tiresia concepiscono descrizioni di realtà diverse alle quali possono accedere. Le stesse realtà che stanno vivendo le Baccanti che hanno fatto insorgere il Dioniso dentro di loro.

Nel delirio bacchico le fanciulle, che nella vita quotidiana sarebbero timide e remissive, si trasformano in amazzoni, in valchirie diventando consapevoli della loro forza di persone che con le loro azioni modificano o determinano il corso della vita. Le "deboli mani" bloccano i tori. Nel delirio bacchico c'è la trasformazione della personalità, cosa che non avviene nel delirio cristiano in cui l'individuo si eleva a Dio,

Nietzsche non riesce ad uscire dalla dimensione creazionista che gli è stata imposta nell'infanzia. La sua scala di valori è una gerarchia che va dall'uomo sottomesso, che guarda con disprezzo, all'assolutezza e all'onnipotenza di Dio che guarda come possibilità nella quale trarre la propria soddisfazione esistenziale.

Dio, per Nietzsche, nella sua assolutezza possiede l'uomo e Nietzsche ambisce a questo potere come "super-uomo", "oltre-uomo" al di fuori della legge e di ogni norma. Essere al di là della legge, come ha imparato da Paolo di Tarso.

In questo contesto, Nietzsche non comprende come la medesima realtà abbia molte chiavi di lettura a seconda di come si usa la propria percezione; a seconda della qualità dei propri desideri; a seconda di quali bisogni si ritiene di dover soddisfare; a seconda di quali emozioni possono invadere la propria coscienza.

In questo inizia a delinearsi l'oltre uomo di Nietzsche. Non è l'oltre-uomo o l'oltre-donna che sottraggono le loro azioni alla legge, ma è l'oltre-uomo e l'oltre donna, come coloro che si prendono in mano la propria vita in una follia che cancella i loro doveri sociali e portano la loro attenzione tutta dentro loro stessi. Sono coloro che si ribellano alla legge che opprime in favore della legge che libera; sia le emozioni dei singoli individui che il loro essere soggetti sociali.

Per Nietzsche è l'individuo il "super-uomo", l'artista, che comunica alle masse che non sono composte da "super-uomini" o "super-donne". Per Nietzsche le masse non sono composte di artisti che forgiano la loro esistenza. Sono masse amorfe, create da Dio, dalle quali si stacca e si separa il così detto "uomo superiore"; l'artista.

La rappresentazione simbolica di donne che travolgono tutto, spazzano via ogni forma di un presente che le vede sottomesse, affascina Nietzsche che immagina di vivere in una dimensione di onnipotenza, di superiorità che schiaccia ogni nemico. Solo che le Baccanti non schiacciano ogni nemico, ma quella forma che vorrebbe ricondurle alla sottomissione al di là di come quella forma si presenta.

Nietzsche non coglie le dinamiche sociali del dionisismo, coglie soltanto l'individualismo del Dio e la sottomissione delle masse, del coro, al Dio. Nietzsche non coglie il delirio come ribellione soggettiva al dominio sociale, ma solo come condizione con cui il dominatore, Dioniso, afferma il suo potere di Dio davanti al coro che, per Nietzsche, si fa massa spettatrice. In questo Nietzsche coglie in Schopenhauer l'uso della volontà, come strumento per schiacciare gli uomini e schiacciare sé stesso, combattendo la volontà d'esistenza in nome del nichilismo autodistruttivo.

Scrive Nietzsche in "La nascita della tragedia":

L'eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questo talento artistico: farla sentire circondata da una tale schiera di spiriti, con la quale essa si sente intimamente una sola cosa. Questo processo del coro tragico è il fenomeno drammatico originario: vedere sé stessi trasformati e operare come se davvero si fosse migrati in un altro corpo, in un altro carattere. Questo processo è alla base dello sviluppo del dramma. Qui c'è qualcosa di diverso dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini ma, in modo simile al pittore, le vede con occhio contemplativo al di fuori di sé. Qui già si manifesta un abbandono dell'individuo in seguito all'ingresso in una natura estranea. Ed è un fenomeno che compare in forma epidemica: tutta una schiera di persone si sente incantata in questo modo. Il ditirambo perciò si differenzia sostanzialmente da ogni altra forma di canto corale. Le vergini che, reggendo tra le mani rami di alloro, si dirigono solenne mente al tempio di Apollo intonando un canto di processione, restano quelle che sono e conservano il loro nome civile; il coro ditirambico è un coro di trasformati, dei quali sono dimenticati totalmente il passato civile e la posizione sociale: sono diventati creature senza tempo, servitori del loro dio, viventi al di là di ogni sfera sociale. La restante lirica corale ellenica è solo un'enorme estensione del singolo cantore apollineo, mentre nel ditirambo ci troviamo di fronte a una comunità di attori inconsapevoli, che si vedono fra loro come trasformati. L'incantesimo è il presupposto di tutta l'arte drammatica. In questo incantesimo il fanatico seguace di Dioniso si vede come satiro, e Come Satiro egli guarda a sua volta il Dio, cioè nella sua trasformazione egli vede al di là di sé una nuova visione, come compimento apollineo del suo stato. Con questa nuova visione il dramma è completo. In base a questa conoscenza dobbiamo intendere la tragedia greca come coro dionisiaco, che si scarica ripetutamente in un mondo apollineo di immagini. Le parti corali che si intrecciano nella tragedia sono dunque in un certo senso la matrice di tutto il cosiddetto dialogo, cioè dell'intero mondo scenico, del vero e proprio dramma. Questo fondamento originario della tragedia irradia, attraverso numerose emanazioni successive, la visione del dramma che è assolutamente apparenza onirica e proprio per questo ha una natura epica, ma d'altro canto, in quanto oggettivazione di uno stato dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nell'illusione, ma al contrario il frantumarsi dell'individuo e il suo farsi tutt'uno con l'essere originario. Perciò il dramma è la materializzazione apollinea di conoscenze e impressioni dionisiache e di conseguenza una frattura abissale lo separa dall'EPOS.

Il coro della tragedia greca, simbolo di tutta la massa eccitata da Dioniso, trova pieno chiarimento in questa nostra concezione. Mentre prima, abituati alla posizione del coro sulle scene moderne, specialmente del coro operistico, non potevamo assolutamente capire come quel coro tragico dei Greci potesse essere più antico, originario, addirittura più importante della vera e propria 'azione' (come del resto ci era stato tramandato); mentre d'altra parte non riuscivamo a conciliare l'immensa importanza e originalità che ci sono state tramandate con il fatto che esso fosse composto solo da esseri umili e servili, da principio addirittura solo da satiri di natura caprina; mentre la postazione dell'orchestra davanti alla scena restava sempre un enigma per noi, siamo ora giunti a comprendere che la scena assieme all'azione fu originariamente pensata solo come VISIONE, e che l'unica 'realtà' è per l'appunto il coro, che produce da sé la visione e ne parla attraverso il globale simbolismo di danza, suono e parola. Questo coro nella sua visione contempla Dioniso, suo signore e maestro, ed è perciò un coro eternamente servente, che vede come egli, il dio, soffre e si glorifica e di conseguenza non agisce. In questa sua condizione di assoluto servizio nei con- fronti del dio, il coro è comunque l'espressione massima, cioè dionisiaca, della natura e come la natura pronuncia nell'entusiasmo sentenze oracolari e di saggezza. In quanto partecipe della sofferenza, esso è saggio annunciatore della verità dal cuore del mondo. Nasce allora quella figura fantastica e così apparentemente scostante del satiro saggio ed esaltato, che è insieme 'l'uomo ottuso' in contrapposizione al dio, immagine della natura e dei suoi impulsi più forti, anzi simbolo di essa e allo stesso tempo annunciatore della sua saggezza e della sua arte: musicista, poeta, danzatore e visionario in una sola persona.

Nietzsche, "La nascita della tragedia", Editore Demetra, 1996, p. 72-75

Gli uomini e le donne che si ribellano, rispetto ad una situazione che colgono come opprimente, cambiano il punto di vista sulla realtà nella quale vivono e la realtà considera questo nuovo e diverso modo di interpretarla: follia, delirio.

Follia e delirio implicano un "trascendere" la realtà vissuta, ma i deliranti di Dioniso, come Don Chisciotte, non trascendono la realtà vissuta, la interpretano parallelamente all'interpretazione razionale. Quando la madre di Pènteo, travolta dal delirio bacchico, uccide Pènteo scambiandolo per un leone, effettivamente ha colto il leone che sta in Pènteo e quel leone lei non lo poteva pensare come Pènteo, suo figlio, Lei poteva solo cogliere la minaccia che Pènteo rappresentava per le baccanti e che si materializzava, nella visione della madre, sotto forma di un feroce leone. Il leone e Pènteo erano la stessa cosa solo che nel mondo della ragione la madre vede solo il figlio come forma e non coglie la struttura emotiva del figlio o i suoi intendimenti che diventano sostanza solo nel mondo emotivo. Nel delirio bacchico sparisce dall'orizzonte percettivo la forma del figlio e alla percezione appaiono le emozioni e gli intenti di quell'uomo che la ragione alterata tenta di raffigurare associandolo ad un animale. Pènteo, che spiava le baccanti, rappresentava un pericolo per le baccanti come se fosse un leone appostato con l'intenzione di sbranarle. In effetti, Pènteo era intenzionato a trasformare le baccanti in schiave incatenate.

Come l'oppressione assume la forma dei mulini a vento, così nel delirio delle baccanti e dei satiri, l'oppressione prende il volto di leoni e di draghi che devono essere distrutti.

Il delirio non fa vedere alle Baccanti cose diverse dalla realtà, il delirio permette alle Baccanti di interpretare in maniera diversa la realtà che, privata dalla forma e dalla quantità, si rivela alla percezione delle baccanti per ciò che è nella struttura emotiva e non per ciò che è nella forma e nella quantità.

Le Baccanti e i Satiri sono fuori dalla forma.

Per loro il mondo della forma ha cessato di essere. Vivono nel mondo delle emozioni e dialogano con le emozioni del mondo evocando l'Afrodite dentro di loro.

Afrodite non è la bellezza scolpita e dipinta nel rinascimento italiano. Afrodite è sorella delle Erinni, delle Furie. Furia essa stessa, nata dal loro stesso sangue. Afrodite è un potere che può reggere la relazione con Efesto, il distruttore che si fa fabbro, e Ares, la contraddizione, il conflitto che genera la vita e le sue trasformazioni.

Nietzsche fraintende il "delirio bacchico" e lo assimila ai malati mentali che la "scienza" del XIX secolo inizia ad internare nei manicomi. Il "delirio bacchico" non è il delirio del cristiano alla ricerca dell'onnipotenza di Dio; il delirio bacchico è l'estraneazione di uomini e donne dalla forma della realtà che abitano. Un'estraneazione che li porta a vivere una diversa percezione del medesimo mondo la cui forma appare alla loro coscienza in significati diversi.

E' certo che il culto di Dioniso in Grecia viene fatto risalire a prima del 1200 a,c, Ed è certo che quando Nonno di Panopoli scrive le Dionisiache il culto era vivo se non nella sostanza religiosa almeno nella rappresentazione e nei racconti. Il culto di Dioniso durò oltre 1800 anni e questo sta a significare che i deliri dionisiaci non hanno nulla a che fare con i deliri immaginati da Nietzsche.

Scrive Kerenyi in Dioniso:

Non viene mai detto esplicitamente che i mesi invernali, ad Atene come a Delfi, appartenevano a Dioniso. Eppure si tratta di un fatto evidente, chiaramente rilevabile dal calendario attico e dalle tradizioni relative al culto purché si anteponga ciò che è ricavabile dalle concrete realtà naturali alle discussioni fra gli studiosi. Quasi contemporaneamente all'inizio del periodo invernale dedicato a Dioniso in Delfi, si compiva ad Atene un rito festivo del tutto naturale, non legato a un giorno stabilito. Dal momento che doveva essere una festa mobile, non è segnata in alcun calendario festivo. Essa venne però descritta dallo storico ateniese Fanodemo, e questa descrizione si è conservata. Presso il tempio del Dioniso venerato "nelle paludi"- en limnais - gli Ateniesi preparavano la mistura e la offrivano al dio, dopo che avevano attinto nelle loro case il vino nuovo ancora dolce - gleùkos - dai grandi recipienti d'argilla - pithoi - e lo avevano trasportato lì ciascuno per conto suo. Fanocle, un autore del periodo postclassico in cui la religione dionisiaca era ormai addomesticata, si interessò soprattutto della mistura civilizzata. Perciò egli sottolinea il fatto che presso il Dionysos Limnaios si trovavano anche sorgenti, le cui Ninfe erano secondo lui chiamate nutrici di Dioniso perché il vino cresceva per mezzo dell'acqua. Egli descrive poi l'attività degli Ateniesi in questa circostanza. Essi intonavano canti a Dioniso, eseguivano danze e lo invocavano, quale Euànthes, Dithyrambos, Bakcheutas e Bromios. Non si fa parola di una data fissa nel calendario, e neppure di un periodo di apertura del tempio: si giungeva al santuario con il gleùkos, lo si mescolava all'acqua per il dio, e lo si beveva in suo onore - per la prima volta nel nuovo anno vinario. Secondo Tucidide, il tempio di Dioniso "nelle paludi" era situato a sud dell'Acropoli, ed era uno dei santuari più antichi della città.

Karl Kerenyi, Dioniso, Editore Adelphi, 1998, p. 270-271

Si ha troppo l'abitudine di pensare agli Antichi paragonandoli ai "selvaggi" che con tanto ardore i colonialisti cristiani massacravano deridendo le loro danze.

Ma non è così. Davanti al dionisismo, come all'orfismo, noi siamo davanti a sistemi religiosi che hanno fornito le basi per la nascita delle civiltà sia greca che romana.

Questa osservazione è estranea alle idee sociologiche secondo cui la nascita delle società civili è da attribuire a scelte razionali degli uomini in contrapposizione agli "istinti" naturali e "selvaggi" che avrebbero, secondo i cristiani, caratterizzato le pratiche religiose antiche. Non c'erano "istinti" naturali e "selvaggi" degli uomini, ma solo una diversa percezione della realtà che aveva al suo centro le relazioni emotive fra gli uomini e fra gli uomini e il mondo. La razionalità emerge solo in un secondo tempo come alienazione dell'uomo dal mondo.

La spinta per cui nasce un ordine sociale è una spinta emotiva, irrazionale, generata dai bisogni e dalle necessità dell'uomo prima ancora che l'uomo possa pensare e razionalizzare i propri bisogni e le proprie necessità.

E' importante sottolineare la condizione esistenziale della "donna dionisiaca", la Baccante o la Menade, perché in quella tradizione nasce un fraintendimento ottocentesco secondo cui la società patriarcale sarebbe stata preceduta da una società matriarcale. Sembra piuttosto che la radicalizzazione in senso patriarcale della società greca sia stata una sorta di risposta all'impossibilità di controllare le donne che si identificavano nel culto di Dioniso.

Scrive Kerenyi in relazione ai tardi riti Dionisiaci che ancora, in epoca abbastanza tarda, si tenevano ad Atene:

Accanto all'altare del tempio c'era una stele con la legge che riguardava la regina - dopo l'avvento della democrazia, la moglie dell'archon basileùs. Per contrarre matrimonio essa doveva essere ateniese e vergine, perché era tenuta a compiere le "ineffabili sacre cerimonie" - àrrhèta hierà - per la città, e doveva essere data in sposa a Dioniso. Era suo compito far giurare le quattordici "donne venerabili" - le Gérairai -, che si dedicavano al culto ateniese di Dioniso e non soltanto in questo tempio: esse officiavano presso quattordici altari. Di conseguenza anche ad Atene, così come a Elide, il culto di Dioniso era affidato a un antichissimo collegio femminile. Il diverso numero delle donne che lo componevano - qui quattordici, là sedici - appare stranamente anche nella religione di Osiride, dove il numero delle membra del dio, che si dovevano raccogliere e ricomporre, corrisponde talvolta a quattordici e talvolta a sedici. Il santuario "nelle paludi" era considerato ad Atene non soltanto il più antico, ma anche il più sacro fra quelli consacrati a Dioniso. Dove fossero situati i quattordici altari non sappiamo, perché nel tempio en limnais viene menzionato solo l'altare. Tuttavia il legame con gli antichi culti dionisiaci del Peloponneso - quello di Lerna e quello di Elide - si riconosce con sicurezza.

Karl Kerenyi, Dioniso, Editore Adelphi, 1998, p. 272

Era chiaramente un culto dedicato ad un Dio "maschio" che serviva per elevare le donne ad una condizione sociale che non fosse servile.

Poi, un po' alla volta, rimase solo il servizio sacerdotale svolto dalle donne e la leggenda delle donne onnipotenti, rispetto ad una società soffocante, che nel delirio dionisiaco acquisiscono una tale forza da permettere loro di rivendicare sé stesse rispetto ad un mondo opprimente.

Quel mondo che esclude le donne dalla società mentre quelle donne trovano in Dioniso il riconoscimento di sé stesse come soggetti attivi che agiscono evocando il dio che hanno costruito dentro di loro. E quel Dio, fatto con le loro emozioni e forgiato da ogni prova che l'esistenza ha proposto loro, chiede alla razionalità, che occupa la loro coscienza, di farsi da parte per permettergli di affacciarsi alla coscienza per percepire il mondo in un modo nuovo e diverso.

Dioniso non è un soggetto esterno che alimenta il delirio in uomini e donne; Dioniso è il nome che viene dato al Dio che ogni uomo e ogni donna costruisce investendo le proprie emozioni nella vita quotidiana. Quel Dio, con la sua diversa percezione della realtà, quando si presenta alla coscienza, aliena l'individuo dalla descrizione della ragione e gli permette di percepire la sostanza del mondo in cui la persona vive e dal quale la ragione è separata.

Il delirio bacchico non è manifestato dal soggetto che viene visto "delirare". E' l'osservatore che, pensandosi "razionale" come condizione naturale dell'esistenza, afferma che quei comportamenti sono deliranti. Quello spettatore non si chiede se il suo considerare "la ragione", come attività attraverso la quale descrivere e classifica il mondo, non sia in sé un'azione delirante rispetto alla realtà del mondo.

Pènteo è un leone che intende ridurre le baccanti alla schiavitù con la sua violenza. La madre lo ha percepito in quanto tale e, in quanto tale, ha agito uccidendolo per difendere le baccanti. Poi, la madre, quando esce dal delirio, cessa di ricordare la percezione emotiva vissuta e ritorna a considerare le cose attraverso la forma. E' allora che si accorge che quello era suo figlio. Ma fintanto che la madre non delirava non era in grado di cogliere la malvagità di suo figlio e figurarselo come un leone feroce che avrebbe distrutto le baccanti.Ora la madre ha dimenticato la natura emotiva del figlio; ora vede solo la forma e ne piange la forma pensando di aver vissuto un inganno che l'ha costretta a scambiare il figlio per un leone.

In fondo, tutti noi siamo degli Dioniso che, cuciti nella coscia di Zeus, vivendo costruiamo noi stessi nell'attesa che i Titani si riprendano ognuno la loro parte di noi e poter accedere all'Olimpo.

Il delirio bacchico è questo!

Marghera, 18 giugno 2023

 

capitoli del settimo volume della Teoria della filosofia aperta

 

 

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Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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Ultima formattazione 07 ottobre 2021

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