Umberto Galimberti (1942 - vivente)

Possessione diabolica - capitolo tre

di Claudio Simeoni

Cod. ISBN 9788827811764

La Teoria della Filosofia Aperta: sesto volume

 

Filosofia Aperta - seconda parte (del volume)

 

 

Possessione divina (o demoniaca) e le emozioni nel tempo in
"Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto"

 

Umberto Galimberti, per giustificare il suo fondamentalismo cristiano, prima di iniziare a parlare del cristianesimo, deve imputare all'antica religione greca il concetto di possessione diabolica.

Il concetto è parte dell'ideologia platonica. Dal momento che il corpo dell'uomo è abitato dall'anima "divina proprietà del dio padrone" che determina i comportamenti del corpo, così gli Dèi, che i cristiani trasformeranno in demoni, si impossessano del corpo degli uomini.

Questo concetto, caro ad Umberto Galimberti perché gli consente di stuprare la vita degli uomini, è l'opposto di quanto presentato dal Mito. Questo al di là delle parole con cui il Mito definisce le varie situazioni e al di là delle traduzioni, volte a veicolare il cristianesimo, con cui le parole, che descrivono il Mito, vengono tradotte. Non nego che la traduzione della parola, che in italiano viene fatta con "pregare", sia scorretta; nego che gli antichi a quella parola attribuissero il senso della sottomissione e della deferenza che gli attribuiscono i cristiani. Il cristianesimo è una religione di schiavitù e il significato culturale dato alla parola "pregare" è imposto allo schiavo affinché riconosca la legittimità di essere uno schiavo sottomesso all'oggetto che prega. Vaglielo a dire ai Romani che sono pronti a distruggere il tempio se gli Dèi non stanno ai patti. E la stessa cosa vale per i Greci, prima del criminale Platone che, volendo impossessarsi degli uomini imponendo l'aristocrazia contro la democrazia, aveva la necessità di costruire deferenza nei confronti dell'autorità da parte degli schiavi sottomessi.

Scrive Platone nell'Apologia di Socrate:

"C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte."

Tratto da: Platone, Apologia di Socrate 31 d

La possessione demoniaca inizia con Platone e il ragionamento è semplice: se dentro ad un corpo il padrone può infilarci l'anima, sicuramente altri soggetti, come la depravazione platonico-cristiana del concetto di daimon, per suo conto e per propria scelta, si può impossessare di quel corpo.

Per riuscire a capire la devastazione psichica che ha subito Umberto Galimberti a riflettere positivamente sul fondamentalismo cristiano e tollerando l'odio contro gli uomini della società civile in una visione ontologica della realtà esistenziale dell'uomo, dobbiamo tornare al 1987 quando Galimberti scrive "Il corpo".

Galimberti in Il Corpo nel 1987 scriveva:

Pindaro, ad esempio, ci dice che:

Il corpo di ciascun uomo segue la chiamata della morte possente.
Ma viva ancora rimane un'immagine di vita (aionos eidolon), perché questa sola
viene dagli dèi. Dorme mentre le membra agiscono, ma quando l'uomo dorme,
spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura." [fine citazione Pindaro]

Il Rohde vede in questo frammento "un'anticipazione dell'anima platonica"," mentre il Dodds lo accosta addirittura a un passo della Repubblica (571 d-e, sgg.) dove Platone dice che la facoltà razionale (loghistik6n) è desta e attiva nel sonno e talvolta può percepire cose che non sapeva prima."

Ora, l"'immagine di vita" di Pindaro non assomiglia tanto alla "facoltà razionale" di Platone, quanto, se vogliamo usare la metafora freudiana, alla vita dell'inconscio che diventa più attivo nel sonno proprio perché la facoltà razionale sospende la sua vigilanza. Il Greco, infatti, non ignora la dimensione inconscia, anzi la chiama demone (daimon), distinguendola anche terminologicamente dall'anima (psyché), e solo per una scarsa familiarità con la filosofia il militare Senofonte poteva confondere le due cose e dire che "proprio nel sonno, l'anima (psyché) mostra meglio la sua natura divina, perché, godendo della sua massima libertà, può avere un certo intuito circa l'avvenire"." La distinzione tra dimensione inconscia (daimon) e anima (psyché) va tenuta ferma per evitare grossolani fraintendimenti a proposito dell'influsso delle dottrine sciamaniche sulla formazione del concetto platonico di anima. L'Io occulto che gli sciamani contrappongono alla vita del corpo, "questa goccia di sangue estraneo nelle vene dei Greci" come la chiama il Rohde," non è l'anima che Platone contrapporrà al corpo, ma è il demone che troviamo nel Fedro e nel Simposio dove Platone non par- la dell'anima (psyché), ma dell'amore (éros). è all'éros come daimon che Platone assegna la funzione di "congiungere l'umano al divino, colmando l'immenso vuoto che separa i due mondi"," ed è significativo che, in questo recupero della composizione simbolica, il tema dell'immortalità dell'anima, nato da quella logica disgiuntiva con cui Platone ha distrutto ogni senso e ogni significato della primitiva ambivalenza, manchi completamente nel Simposio, perché, come giustamente osserva il Dodds, "se l'avesse introdotto, poteva essere messa in pericolo la concezione dell'intelletto come entità autonoma, indipendente dal corpo, e Platone non voleva correre questo rischio"."

A proposito della tradizione sciamanica e del nuovo schema da essa introdotto e fondato sulla distinzione tra anima e corpo, non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dalla terminologia. L'"anima" sciamanica non è la facoltà razionale di Platone, ma la vita dell'inconscio a cui alludevano Pindaro e, sia pure grossolanamente, Senofonte. Per lo sciamano, infatti, l'anima è la dimensione irrazionale dell'uomo che cerca di staccarsi dal corpo, perché questo, come corpo vivente impegnato in un mondo, non gli consente di "liberarsi a suo piaci mento e di viaggiare in regioni lontane". Rispetto a Platone siamo dunque agli antipodi: lo sciamano rifiuta il corpo per quel tanto che il corpo ha un suo modo codificato di condurre la vita, condizionato com'è dall' ordine costituito. Il rifiuto si esprime, come ci informa Erodoto: "nel digiuno e nell'isolamento"," che sono le condizioni più idonee per produrre quella dissociazione mentale necessaria per percorrere le regioni dell'incodificabile, da cui solamente può scaturire, per dono degli dèi, il nuovo senso.

Per questo i membri delle comunità sciamaniche avevano orrore del proprio corpo in cui credevano giacesse morta non la ragione, ma 1'occulto che già Empedocle non chiamava psyché, ma daimon, alludendo con questo termine a quel calore vitale che con la morte veniva riassorbito dall'elemento igneo da cui era venuto. La sua funzione era quella di portatore della divinità potenziale dell'uomo che, come già l'''immagine di vita" di Pindaro, agisce di preferenza nel sonno e nella trance. Qualcosa quindi che si avvicina all"'anima psichica" dello sciamano e non all'''anima razionale" in cui credeva Platone quando invitava a "fuggire il mondo" e a fare "esercizio di morte".

Tra lo sciamano e la sua anima psichica non c'è infatti quell'opposizione disgiuntiva che Platone ha introdotto tra il corpo e l'anima. L'anima psichica degli sciamani è un partner con cui il corpo ha una relazione ambivalente, fausta o infausta a seconda che opponga o meno resistenza alla confusione dei codici e delle lingue, necessaria, nella trance e nell'estasi, perché l'anima possa riportare quel corpo all'origine del senso. Nulla quindi da spartire con l'anima platonica che, come principio dell'identità e dell'equivalenza di ciascuno con se stesso, è l'esatto contrario della confusione dei codici.

Non più scambio simbolico con entità trascendenti l'umana razionalità, ma riproduzione dell'identità personale, riaffermazione dell'Io. Questa è l'anima platonica, rispetto a cui il corpo viene a raccogliere in sé tutti quei motivi irrazionali che, introdotti nel mondo greco dell'''anima sciamanica", sono poi stati ripresi dall"'immagine di vita" di Pindaro, quindi dal "demone" di Empedocle, fino alla "follia del corpo" di Platone. Il corpo diventa così il contro altare della ragione; eppure proprio come tale costituisce una tentazione costante e mai superata dal pensiero greco, se è vero, come abbiamo visto, che non solo Platone vi si abbandona quando nel Simposio parla dell"'éros come daimon", ma prima di lui Eraclito, il filosofo del L6gos, non riesce a sottrarsi là dove accenna al demone come norma di condotta dell'uomo: "èthos anthr6poi daimon","

Pag. 50 – 53 di "Il corpo" di Umberto Galimberti 1987, tratto dalla diciassettesima edizione 2007 Editore Feltrinelli.

Appare evidente che l'idea, secondo cui l'uomo costruisce il dio che sarà, è proprio del concetto di daimon della Grecia pre-platonica com'era il concetto di Genio e Juno nella Roma pre-scipionica.

L'uomo, come ogni Essere della Natura, è un corpo che nell'abitare il mondo costruisce il suo daimon, il suo corpo luminoso che partorirà alla morte del corpo fisico.

Quel corpo, a differenza di quanto sostiene Platone, non può essere abitato dall'anima per il semplice fatto che è abitato dal corpo stesso che abita il mondo. Il corpo abita sé stesso e nell'abitare sé stesso vive nel mondo. Costruisce le relazioni con i soggetti del mondo e, nel farlo, costruisce il proprio corpo luminoso.

Platone doveva costringere l'uomo a diventare uno schiavo sottomesso. L'ideologia di Platone, come l'ideologia cristiana è l'ideologia filosofica della sottomissione. Affinché tale ideologia venga "legittimata" è necessario costruire una "realtà" immaginata dell'uomo in modo da impedire al singolo uomo di essere il "padrone" di sé stesso. Per costruire l'ideologia della sottomissione Platone doveva rubare la capacità di quel corpo di abitare il mondo e di costruire le relazioni col mondo: doveva morire al mondo (come i cristiani in Paolo di Tarso) affinché si liberasse un oggetto estraneo al corpo chiamato "anima".

Scrive Galimberti:

Dea titana, sorella di Crono e di Oceano, madre delle Muse, il cui coro essa guarda e con le quali talvolta si confonde, Memoria "possiede" i poeti rendendoli "entusiasti". Questa possessione sottrae il poeta al ritmo della vita quotidiana, alla scansione del tempo lineare, per portarlo in quella condizione di entusiasmo che è tipica di chi ha in sé un dio (én-theos). Nell'entusiasmo infatti non parla più il poeta, ma il dio che lo abita, e perciò Euripide può dire:

"Quando invero il dio entra possente nel corpo fa dire il futuro a coloro che infuriano"."

Questa condizione di "possessione" e di "entusiasmo", senza la quale non c'è creazione poetica, è riconosciuta anche da Platone, che la annovera tra le forme di "divina follia (theia mania)":

E' una follia che prende tenere anime immacolate e inaccesse, le desta e le entusiasma in lirico canto e in altre poetiche composizioni; infonde ordine e bellezza ad antiche gesta, le sopravvenienti generazioni educando. Ma chi senza la follia delle Muse si avvicina alla poesia, convinto di diventar poeta per averne acquisito la tecnica (ek téchnes), inutile è lui e la sua arte perché, di fronte alla poesia dei folli (mainoménon), la poesia del saggio (sophronoùntos) ottenebrata scompare.

Chi è poeta per "tecnica" e non per "possessione" non dispone, infatti, di quella visione che i Greci chiamavano epopteia. Questa parola significa letteralmente "guardare al di sopra", e non "indietro" per ricostruire il proprio passato o per rintracciare la propria identità. Anzi con l'epopteia è proprio l'io del poeta a cedere, per lasciare il posto a una visione che è al di là dei propri ricordi e del proprio tempo. Per questo, scrive Omero:

Le Muse, incontrato Tamiri, il tracio vate, mentre veniva da Ecalia, da Eurito Ecaleo, sul labbro gli spensero il canto, perché vantato s'era che vinta egli avrebbe la gara pur se avessero cantato le Muse, figlie di Zeus. Esse, adirate, cieco lo resero, e il canto divino tolsero a lui, della cetra scordare gli fecero l'arte."

Come tutte le imprese che non dipendono unicamente dall'uomo, la creazione poetica contiene qualcosa che, dice Omero, non è stato scelto (éloito) ma concesso (edédoto), dove "concesso" significa "dato dagli dèi", per cui, scrive Omero: "Non son da gettare gli amabili doni degli dèì, perché sono essi a darli, e nessuno può scegliere questo o quello". Così fu una Musa che tolse a Demodoco "la vista corporea per conferirgli qualcosa di meglio, il dono del canto, perché lo amava".

Pag. 64 – 65

L'uomo non manifesta questo o quel dio diventando esso stesso questo o quel dio, ma, secondo Galimberti, viene posseduto da un dio padrone che determina la sua azione. Come il dio padrone, mediante l'anima, possiede il corpo dell'uomo, così Galimberti immagina che Mnemosine possiede i poeti: ma è un'idea che formula il cristiano fondamentalista Galimberti.

La possessione diabolica è una delle varie follie criminali con cui Platone ha insultato gli uomini. Ha ucciso la volontà del loro Io alimentando il racconto di uomini ridotti ad oggetti d'uso da parte di divinità che si dilettavano con gli uomini come se fossero dei giocattoli fino a giustificare i roghi cristiani con cui bruciare gli eretici e le donne che, alimentando il dio che cresceva dentro di loro, agivano nella vita per aiutare altre persone.

Quello di Galimberti è puro esercizio di retorica ingiuriosa. Come fu quella di Platone.

Sono posseduti dal "dio" il fabbro che batte il ferro, il contadino che miete il grano, il pastore che conduce il gregge, il bovaro che munge la mucca? Non fu forse Afrodite a possedere Anchise mentre pascolava le mandrie? La possessione divina da cui nacque Enea?

Il "dio" possiede, nel senso che vive in sé, non nel senso che "diventa padrone del corpo di una persona".

Perché Galimberti usa l'esempio del "poeta"? Di colui che non ha mai agito per trasformare merci in prodotti?

Ci sono scrittori di poesia che hanno vissuto profondamente la loro vita e la loro poesia è la sintesi della loro esperienza, ma la maggior parte dei "poeti" sono dei falliti esistenziali che nella poesia riversano l'incapacità e l'angoscia per un mondo che li ha travolti.

Non è "un dio" che travolge le loro emozioni, ma è la loro disperazione, che si sublima nella disperazione che presentano in una struggente nostalgia, per quanto avrebbero potuto fare ma furono troppo vigliacchi per farlo.

Galimberti non ci presenta l'uomo vissuto la cui esperienza è trasformata in poesia. Galimberti ci presenta il poeta in sé. Un uomo statico, separato da un mondo statico che diventa poeta o perché un dio padrone lo possiede o perché ha acquisito una tecnica espressiva.

Perché Galimberti alimenta l'ideologia propria del fondamentalismo ideologico cristiano che legittima il furto e della rapina nei confronti degli uomini? Perché lavorare o filare? Perché affannarsi per che cosa mangiare?

L'ideologia per la quale Galimberti parla di doni degli Dèi e di possessione dell'uomo da parte di un altro ente, è ben conosciuta:

Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.

Testo Cei bibbia cristiana Matteo 6, 25 – 34

Si tratta dell'ideologia del ladro, del delinquente che vive nella società pensando alla società come una casa da depredare. L'ideologia con cui la chiesa cattolica rapina e saccheggia la società civile in nome e per conto del suo dio padrone che provvederebbe a lei affinché lei potesse continuare a saccheggiare la società civile.

E' l'ideologia espressa da Gesù ed è la stessa ideologia espressa da Platone nell'Apologia di Socrate che Galimberti fa propria e riproduce, legittimando il delitto, nella società civile.

Scrive Galimberti:

2. La poesia come sacrificio dell'io

Il rapporto con il dio esige il sacrificio dell'io. La vista superiore, l'epopteia, ha la sua contropartita nella cecità per le cose della terra. A questo destino non sfugge neppure il prigioniero del mito platonico della caverna che, al suo rientro, dopo aver visto "il sole che presiede il regno dell'essere, ed è causa anche di tutte le ombre che sullo sfondo i prigionieri vedono", suscita l'ilarità dei suoi compagni di prigionia che, nel rivederlo incerto nel discernere le ombre, dicono fra loro: "Quell'uomo è andato in alto, ma ora torna con le pupille annientate"."Ma che tipo di visione concedono le Muse in cambio della cecità? Omero, che la tradizione vuole cieco, invoca l'aiuto delle Muse per sapere che cosa deve dire, e non come deve dirlo; l'invocazione è per il contenuto, non per la forma. Il poeta dunque è un veggente. Il latino vates conserva traccia di questa originaria unità.

[…]

Pag. 65

La mia struttura emotiva esige che io fermi la mia ragione, la mia descrizione del mondo. Quando l'emozione insorge entro di me, la ragione, la descrizione del mondo si annulla. La coscienza razionale si destruttura permettendo alla mia coscienza di separare il mio essere in sé, in quanto soggetto che vive nel mondo, dalla descrizione della coscienza razionale che pretende di determinare la mia vita entro una descrizione del mondo che si è adattata alle sollecitazioni della società.

La razionalità, la ragione, viene sospesa dall'insorgenza dell'emozione che travolge la descrizione e la annulla. Lo stesso vale per l'azione nel mondo. L'agire dell'uomo annulla la descrizione del mondo. L'azione, come l'insorgenza dell'emozione, annulla la descrizione. Annulla quella che Umberto Galimberti, volgarmente, chiama l'Io (o anima platonica) come se io non fossi il soggetto travolto dalla mia emozione, o non fossi il soggetto che agisce nel mondo adattandomi, o non fossi lo stesso soggetto che, acquetata l'emozione e finita l'azione, non ricostruisse la propria descrizione del mondo, il proprio Io.

Io sono l'emozione che insorge. Io sono colui che sospende la propria descrizione del mondo. Sono il soggetto che annulla la forma del mondo. Sono il soggetto che agisce nel mondo. Sono il soggetto che vive nel proprio tempo e che conosce gli Dèi perché io, emozionandomi, sono un dio fra Dèi di un mondo in perenne modificazione in cui il me stesso di oggi non è il me stesso di ieri e la modificazione, la trasformazione, è il presente del tempo che io vivo.

Platone vive nella caverna della descrizione dove ogni insorgenza emotiva è un'ombra oscura e minacciosa. Platone vive in una caverna oscura dalla quale rifiuta ogni agire perché ogni azione lo costringerebbe a modificare la qualità dell'oscurità in cui vive. In quella condizione, Platone scambia le farneticazioni deliranti come se fossero "luce" che illuminano il buio di una sua esistenza da parassita sociale.

Per questo Platone sogna un padrone, un demiurgo in cui identificarsi, che non lo costringa ad emozionarsi per poter vivere. Un demiurgo che agisca per lui con una provvidenza che gli consente di nascondersi in un mondo in cui anche le idee non sono il prodotto del suo abitare il mondo, delle relazioni che Platone può costruire nel mondo, ma sono il prodotto di quel demiurgo di cui si proclama portavoce: questa fuga dalla vita, Platone la chiama saggezza!

Omero non invoca le Muse per sapere che cosa dire, ma invoca l'aiuto delle Muse per riempire di emozione e di passione quanto deve raccontare. Le Muse che evoca Omero non sono le Muse che parlano alla ragione, ma sono le Muse che alimentano di emozione quanto viene raccontato. Omero evoca l'Intento, quell'Eros che primo sorse dalla materia all'inizio del tempo, fondamento e origine della vita e l'Intento chiama l'Intento emotivo dentro Omero, la fonte emotiva per la quale Omero è un vivente e non un cadavere, affinché riempia di emozione il suo racconto.

Non sono le Muse che ispirano Omero, sono le Muse che alimentano l'azione di Omero, che comunque avrebbe agito, evocando la propria capacità di trasformarsi in Musa. Lo stesso vale per Esiodo e per i poeti che parlando di cose divine. O esprimono il dio che hanno costruito nel corso della loro vita e che vive emotivamente il racconto sia come azione che come emozione oppure raccontano del loro fallimento esistenziale. Ma è il poeta che vive quella condizione, come il contadino, il bovaro, il pastore, il muratore, il fonditore, il falegname e quant'altri. Quando, troppo vecchi, cessavano di lavorare, gli artigiani portavano i loro attrezzi al santuario di Athena: loro si erano fatti quella Dea e quella Dea si era nutrita della loro azione per tutta la loro vita.

Scrive Umberto Galimberti:

3. La poesia come liberazione dalla dissolvenza del tempo

In questa geografia del soprannaturale, il passato è al di là rispetto al mondo dei vivi, è il mondo degli dèi a cui ritorna tutto ciò che ha lasciato la luce del sole. A questo mondo l'anima del poeta può accedere, può entrare e ritornare liberamente per dono di Memoria. E qui si scopre il legame tra eternità e verità, nel senso che il mondo degli dèi va nella direzione dell'ordine che mette capo alla stabilità, ossia a quello stare che in Platone assumerà la forma dell'epistéme, mentre il mondo degli uomini, il presente abitato, come dice Esiodo, dalla "quinta generazione, la generazione di ferro", è orientato nella direzione del divenire e tende a tracollare dalla parte della morte, per cui tra presente e passato l'anima poetica non distingue due tempi, ma due mondi: il mondo dell'essere presieduto dalla Verità e il mondo del divenire divorato da Oblio.

Già con la tradizione poetica, quindi prima di Platone, la verità è una liberazione dal tempo. Questa liberazione è presente in tutti e tre i registri a cui si rivolge il canto poetico: la celebrazione degli dèi, la celebrazione degli eroi e la celebrazione dei riti. Del primo si è detto: gli dèi abitano quel tempo che è il regno dell'immutabile, a cui la memoria del poeta conduce con il suo canto, che stende oblio sull'insensato divenire delle vicende umane. Tra queste spiccano le vicende degli eroi, a cui i poeti accordano o rifiutano memoria. Siamo al secondo registro poetico che conferisce essere e realtà all' eroe che non ne possiede senza l'elogio del poeta.

Ma Elogio è contiguo a Biasimo e la parola poetica è un'arma a doppio taglio che si muove tra queste due potenze. In mezzo c'è il poeta, arbitro dell'étimo dell'eroe, del suo "vero significato". Per questo Pindaro può scrivere: "Respingendo Biasimo tenebroso, come un'onda benevola porterò a un amico la vera Lode della sua gloria". Biasimo, con la sua qualifica di tenebroso, è uno dei figli della Notte e fratello di Oblio. Per questo Pindaro, dopo aver detto che Biasimo e Oblio sono connessi, parla di Silenzio come del peggior biasimo. Di nuovo la potenza della morte a cui la lode del poeta può strappare l'eroe, per consegnarlo a Memoria che lo avvolge di vita immortale.

Ma oltre alla descrizione di ciò che è prima del tempo, oltre alle vite strappate alla dissolvenza del tempo, la memoria del poeta svolge anche la funzione di riprodurre in terra l'ordine che il tempo non scalfisce. Questo ordine è il rito, e qui incontriamo Teocrito, forse il maggiore tra i poeti bucolici greci, per il quale "divino" è colui che conosce il rituale concatenarsi dei lavori e "ha memoria" di ogni rito senza commettere nessuna colpa di oblio.

Tra l'ordine dei lavori e l'ordine degli dèi, che il poeta ispirato ha visto con la sua epopteia, c'è una stretta relazione. Perché il rito abbia efficacia è necessario che chi vi partecipa condivida lo stesso mito, il quale, attraverso analogie e relazioni, è in grado di saldare l'ordine originario e immutabile che sta nel cielo con l'ordine mutevole della terra. Più il mito è persuasivo nelle identità e connessioni simboliche che produce, più il comportamento è efficace. Il poeta ha il compito di ancorare all'ordine divino, che è stabile e non corroso dal tempo, la regola a cui gli uomini si devono attenere. Nella sua imperscrutabilità, infatti, la divinità non è l'ordine, ma è quel riferimento al di là dell'umano a cui l'umanità ha sempre ancorato le regole che si è assegnata per evitare che risultassero arbitrarie. Alla divinità si potrà rinunciare solo quando gli uomini accetteranno di essere gli autori delle regole, ma per questo passaggio sarà necessaria quella maturazione antropologica in grado di sopportare l'assenza di un ordine naturale o divino, e quindi di abitare senza angoscia l'ordine della convenzione. A questo provvederà la filosofia con la conversione dell'anima da sede della memoria a sede della produzione di idee e costrutti mentali. Qui comincia il disincanto del mondo e il congedo dal sacro.

Pag. 66 - 67

L'uomo non è forma, l'uomo è tempo, trasformazione continua.

A differenza di quanto sostiene Umberto Galimberti, tutto il passato è dentro di me. Il passato mi ha costruito. Dal passato io sono divenuto, scelta dopo scelta, emozione dopo emozione, azione dopo azione: io sono la sintesi di quanto ho vissuto. Io sono la sintesi di ogni volta che ho affrontato le condizioni dell'esistenza e ho espresso, di volta in volta, questo o quel dio. Io sono il dio che sono divenuto. Io sono il dio che agisce sulle trasformazioni per costruire un futuro che ancora non è presente, ma che nasce dagli esseri che agiscono ora.

Io sono I'Oggi.
Io sono lo Ieri.
lo sono il Domani.
Attraverso le mie numerose Nascite
lo sussisto giovane e vigoroso.
Io sono la coscienza divina e misteriosa
Che, in altri tempi, manifestò gli dèi
E la cui celata essenza nutre
Le divinità del Duat, dell'Amenti e del Cielo.

Io ho vissuto! Io non sono vissuto, ma io ho posseduto la mia esistenza!

Proprio perché io "ho vissuto", io continuo a vivere in un mondo di Dèi. Gli Dèi sono il mondo in cui esercito la mia vita fisica come Essere della Natura. Sono il mondo in cui mi trasformo e la morte del corpo fisico non mi allontana da questo mondo, ma si limita a distruggere la percezione della forma e della quantità con cui la ragione descrive il mondo. Non sono io che muoio, se ho saputo vivere con passione, è la mia ragione che muore.

Non è "l'anima" del poeta che accede al mondo emotivo perché non esiste un'anima che possieda il poeta.

E qui si nega ogni legame fra una verità farneticata e un'eternità desiderata da un fallimento esistenziale.

Mnemosine non dona nulla: Mnemosine è un Titano. Come tutti i Titani appartiene alle forze della vita proprie dell'esistenza come azione. Gli Esseri Umani che esprimono Mnemosine si legano e attingono ad ogni altra Mnemosine espressa dagli Esseri nel mondo e una volta che il legame si scioglie, alla ragione umana non resta che l'euforia per ciò che è stato.

Solo il cadavere si libera dal tempo.

Le trasformazioni del cadavere sono trasformazioni prive di coscienza, ma ciò che è coscienza, qualunque sia la sua sostanza di materia-energia, è sempre trasformazione perché la trasformazione, costruita dall'insorgenza dell'emozione, è trasformazione soggettiva verso "l'infinito dei mutamenti".

La verità, la verità proclamata e imposta dal "Io sono la verità e la vita…", è la negazione della vita in quanto nega la trasformazione del soggetto nella sua attività di vivere nel mondo. Il fine di Platone era quello di dominare l'uomo imponendogli un demiurgo che dettava le leggi esistenziali, ma Platone era un criminale che anteponeva sé stesso, come verità rivelata, alla trasformazione dell'uomo pretendendo di risolvere le trasformazioni dell'uomo in sé stesso: come il criminale Gesù.

La celebrazione delle coscienze emotive in un mondo in cui costruiamo le relazioni emotive (gli Dèi); gli eroi o gli uomini che costruiscono le relazioni emotive in un mondo di Dèi trasformando sé stessi in Dèi; la pratica con cui percorriamo il mondo costruendo le relazioni fra noi e i soggetti del mondo (i riti) è la pratica Religiosa con cui alimentiamo le nostre trasformazioni nell'esistenza rigettando e condannando ogni verità che tende a risolvere in essa la nostra esistenza.

Non c'è oblio nel percorrere i mutamenti nel tempo. Non c'è oblio fintanto che noi siamo i mutamenti. I mutamenti del tempo sono tutti dentro di noi. Sono i nostri adattamenti come esseri che generazione dopo generazione hanno trasformato sé stessi. Come singolo individuo che si è trasformato fin dalla vagina di sua madre per crescere nell'atmosfera (cucito nella gamba di Zeus) giorno dopo giorno. Tutto è dentro di me fin dalle prime scelte del mio antenato che si muoveva come un Essere Unicellulare in quel brodo primordiale dal quale la vita emerse e la Natura emise i primi vagiti.

Io, come uomo, sono il prodotto del tempo vissuto dalla materia.

Non esiste un "ordine" che il tempo non scalfisce se non nella delirante ideologia di un adoratore del macellaio di Sodoma e Gomorra che si ritiene perfetto ad immagine e somiglianza del suo pazzo padrone. Il delirio di Platone è il delirio di Umberto Galimberti che in questo delirio diventano mandanti di tutte le difficoltà che sono state imposte agli uomini per poterli sottomettere e dominare. Le mani di Umberto Galimberti e di Platone grondano del sangue dei cadaveri con cui hanno lastricato la storia umana per sottomettere gli uomini ad una verità di cui si ritenevano servi e profeti. E' l'ideologia filosofica espressa che li rende complici e aguzzini indipendentemente dalle loro personali intenzioni.

L'ordine divino non è né stabile né viene corrotto dal tempo perché l'ordine divino è quanto le relazioni emotive sono in grado di costruire dato il divenuto dell'Essere che quelle relazioni costruisce in un mondo che lo chiama alle relazioni. Solo criminali come Platone, il macellaio di Sodoma e Gomorra il pazzo di Nazareth proclamano l'immobilità di un'esistenza di cui si reputano padroni e determinatori.

Solo l'imbecille che vuole riprodurre l'assolutismo cristiano finge di non sapere che gli Dèi sono nati, sono cresciuti, anche quando allevati dalla capra Amaltea o dall'ape, sostenendo idiozie cristianeggianti come: "Del primo si è detto: gli dèi abitano quel tempo che è il regno dell'immutabile, a cui la memoria del poeta conduce con il suo canto, che stende oblio sull'insensato divenire delle vicende umane". Non è importante se qualcuno lo ha detto, ha detto un'imbecillità che offende il Mito in funzione dell'assolutismo creazionista cristiano. Gli Dèi nascono, nascono in continuazione, e proprio perché nascono, divengono e si trasformano continuamente.

L'Eroe non è immortale perché raccontato dal poeta. L'eroe è immortale perché ha trasformato la morte del corpo fisico in nascita di un corpo luminoso che ha costruito attraverso le passioni con cui è vissuto nella sua vita. L'eroe è colui che si assume la responsabilità della sua vita e agisce nella società per aprire orizzonti di futuro negati nel presente vissuto. Ci fu un tempo in cui si indicavano i problemi vissuti dalla società e l'attività con cui l'uomo li risolveva diventando un eroe. Oggi si indicano finti problemi, come la necessità dell'assolutismo cristiano, e si celebrano gli uomini che farneticano per assicurare il dominio dei cristiani sui loro schiavi. Feroci criminali, assassini di professione, come Heidegger, Jaspers, Severino, Galimberti le cui mani grondano del sangue versato dal macellaio di Sodoma e Gomorra e dai bambini stuprati da un criminale crocifisso. Costoro sono celebrati come "eroi" da chi reitera quei delitti e chiama sé stesso "filosofo". Questi non trasformeranno mai la lor o morte del corpo fisico in nascita del loro corpo luminoso perché hanno vissuto senza costruirlo. In compenso, faranno molto male alla società in cui vivono affermando un'ontologia dell'esistenza che si agita solo nel loro fallimento esistenziale.

Gli uomini sono sempre stati gli autori delle regole morali. Gli schiavisti, coloro che volevano trasformare l'umanità in schiavitù, come Platone, gli ebrei, i cristiani hanno attribuito la loro violenza criminale, descritta in regole morali, attribuendole ad un demiurgo, ad un dio padrone, per evitare di essere imputati di delitto. Come fa Galimberti, Heidegger, Jaspers che imputano le loro farneticazioni ad sua visione ontologica di un esistente immaginario di cui si ritengono i padroni.

Qui non si tratta di "…quando gli uomini accetteranno di essere gli autori delle regole…", ma si tratta di processare quelli come Umberto Galimberti, Heideggr o Jaspers, per delitti contro l'umanità in quanto la loro filosofia reitera i delitti del macellaio di Sodoma e Gomorra e quel criminale in croce che ordina di scannare chi non si mette in ginocchio davanti a lui: non è forse la stessa forma di odio sociale assunta da Galimberti?

Quanta gente ha macellato e torturato Agostino per imporre la sua filosofia di pazzo delirante che offendeva e ingiuriava gli uomini nella sua "città di dio"? Quanta gente ha macellato Platone col suo ritenersi "i migliori" in diritto di violentare e stuprare gli uomini affinché si inginocchiassero davanti a lui? La filosofia non è neutra: gronda del sangue di tutti gli uomini e le donne ammazzate in funzione delle ideologie come quella di Galimberti.

Marghera, 21 maggio 2016

NOTA: Le citazioni sono tratte da "Cristianesimo – La religione dal cielo vuoto" di Umberto Galimberti editore Feltrinelli 2012

 

La Teoria della Filosofia Aperta: sesto volume

 

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Quando un percorso sociale fallisce o esaurisce la sua spinta propulsiva, è bene tornare alle origini. Là dove il pensiero sociale è iniziato, analizzare le incongruenze del passato alla luce dell'esperienza e abbattere i piedistalli che furono posti a fondamento del percorso sociale esaurito.

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Marghera, 21 maggio 2016

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.