Martin Heidegger 1889 – 1976

La morte in Essere e Tempo

Claudio Simeoni

 

Cod. ISBN 9788892610729

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

La morte in Martin Heidegger

 

Il concetto relativo alla morte è uno di quei concetti di cui Heidegger parla, ma nel quale non vuole essere coinvolto in quanto tutto il discorso che fa sull'Esserci si dissolve davanti al non-Esserci che lui non è in grado di affrontare se non nell'eccezione cristiana o panteista (essere-in-tutto). La dualità anima/corpo viene legittimata e riproposta da Heidegger nella dualità fra il richiamo della coscienza e l'Esserci.

L'uomo, creato dal dio padrone anima e corpo, nel suo Esserci come corpo in un mondo, viene chiamato, risvegliato dalla coscienza che "silenziosamente" chiama l'uomo ad esercitare la cura nel mondo adattando il mondo alla propria dimensione esistenziale.

Questo fine delineato da Heidegger è il fine esistenziale a cui porta il suo fumoso discorso sulla morte. La morte contraddice quanto ha detto fino ad ora dimostrando l'inconsistenza del discorso ontologico che manifesta un essere al di fuori dei fenomeni con cui si manifesta nel mondo.

Il conosci te stesso di Platone viene trasformato nel "risveglia te stesso" di Heidegger. Due aspetti propri del creazionismo che, al di là dei riferimenti a cui Platone o Heidegger vogliono riferire la condizione creazionista, prosegue con un discorso logico il cui scopo è privare l'individuo della propria capacità di determinazione esistenziale nel mondo.

Scrive Heidegger:

L'impossibilità apparente di una comprensione e determinazione ontologica del poter-essere-un-tutto da 'parte dell'Esserci.

E' venuto il momento di superare ciò che di insufficiente era contenuto nella situazione ermeneutica da cui scaturì l'analisi dell'Esserci finora condotta. In vista della necessità di avere a disposizione l'Esserci nella sua totalità, occorre stabilire se questo ente, in quanto esistente, possa rendersi accessibile nel suo essere-un-tutto. A favore dell'impossibilità di questo darsi sembrano intervenire ragioni fondamentali che si fondano nella stessa costituzione d'essere dell'Esserci.

La Cura, che costituisce la totalità dell'insieme strutturale dell'Esserci, contraddice palesemente, quanto al suo senso ontologico, a un possibile essere-un-tutto da parte di questo ente. Il momento primario della Cura, l'«avanti-a-sé», significa infatti: l'Esserci esiste sempre in-vista-di se stesso. «Fintanto che esso è», fino alla sua fine, esso si rapporta al proprio poter-essere. Anche nel caso che l'Esserci, pur esistendo, non avesse più nulla «davanti a sé» e avesse «chiuso i suoi conti», il suo essere sarebbe sempre determinato dall'«avanti-a-sé». Ad esempio, la disperazione non sottrae l'Esserci alle sue possibilità, ma è soltanto un modo particolare di essere-per queste possibilità. Lo stesso esser pronti a tutto, senza illusione, comporta anch'esso l'«avanti-a-sé». Questo momento strutturale della Cura sta inequivocabilmente a significare che nell'Esserci c'è sempre ancora qualcosa che manca, qualcosa che può essere, ma non è ancora divenuto «reale». Nell'essenza della costituzione fondamentale dell'Esserci si ha quindi una costante incompiutezza. La non totalità significa una mancanza rispetto al poter-essere.

Tratto da Martin Heidegger Essere e Tempo ed. Longanesi 2001 pag. 284

Il primo problema che osserviamo in Heidegger sta nel come egli si pone di fronte alla morte. Come Heidegger considera per morte così non può che pensare alla vita in funzione di essa. Da come pensa alla vita, in un certo modo immagina e considera la morte. La vita è un esserci; la morte rappresenta il suo opposto, l'annullamento dell'esserci.

Tutto il discorso ontologico fatto da Heidegger viene smentito da Heidegger stesso: non esiste un essere-in-sé al di là della rappresentazione fenomenologica dell'essere in quanto la morte costituisce la condizione in cui l'individuo, l'essere-in-se, cessa di rappresentarsi mediante fenomeni e cessa, pertanto, di abitare il mondo.

A mano che noi osserviamo l'"esistenza" dell'Essere il cui corpo fisico è morto, tutto il discorso ontologico svolto da Heidegger si risolve con la morte e la fine di ogni discorso. Che io pensi e affermi un'esistenza oltre la morte, o che io neghi l'esistenza oltre la morte, non esiste un'espressione dell'esserci al di fuori dei fenomeni che il soggetto manifestava nella sua esistenza fisica. Non esiste una dimensione ontologica se non nel desiderio malato di chi vorrebbe sopravvivere all'angoscia e alla disperazione esistenziale consapevole che davanti alla morte del corpo fisico non c'è un oltre. Per affermare un'esistenza oltre la morte del corpo fisico e, dunque, una dimensione ontologica, sarebbe necessario che elementi propri della vita del corpo fisico si manifestassero dopo che il corpo fisico si è trasformato in cadavere. Dal momento che questo non avviene, non esiste una dimensione ontologica e la morte del corpo fisico lo dimostra.

Tutto il discorso di Heidegger nell'Essere e Tempo si è articolato in funzione della "necessità di avere a disposizione l'esserci nella sua totalità, occorre stabilire come questo ente, in quanto esistente secondo Heidegger, possa rendersi accessibile nel suo essere-un-tutto". Il cadavere è un tutto? Cosa resta, oltre il cadavere, che possa sopravvivere?

Heidegger afferma che è venuto il momento di superare ciò che di insufficiente era contenuto nella situazione ermeneutica da cui lui è partito per articolare l'analisi sull'esserci fatta fino ad ora e in vista della necessità di presentare l'Esserci nella sua totalità bisogna stabilire se questo ente, in quanto esistente, possa rendersi accessibile nel suo essere-un-tutto.

Heidegger si trova in sostanza ad aver fatto affermazioni senza possibilità di dimostrazione e dal momento che ha affermato una condizione ontologica dell'essere che pratica l'esserci, non è in grado di portare una dimostrazione sufficiente alle sue affermazioni ontologiche. Separare, come ha voluto fare Heidegger in funzione della legittimità della creazione del suo dio padrone, l'essere dai fenomeni con cui l'essere si rappresenta nel mondo affermando che quest'essere è formato da una realtà al di fuori dei fenomeni manifestati, lo porta a fallire ogni affermazione quando la morte dimostra che la cessazione dei fenomeni con cui l'essere si rapporta nel mondo porta a cessare l'esistenza dell'essere in sé.

L'interpretazione dei testi da cui Heidegger è partito per costruire la sua teoria dell'esserci non comprendeva la possibilità del non-esserci. Eppure, il non-esserci è la condizione fondamentale dalla quale partire proprio per definire l'esserci e la sua qualità attraverso la quale l'abitare il mondo si definisce esserci.

L'essere non è il tutto. Il tutto, qualunque tutto noi vogliamo pensare, non è un esserci, ma è un non-esserci. Il tutto che noi pensiamo è un tutto privo di intelligenza, scopo e intento. E' un tutto privo di volontà e privo della necessità ed ha le caratteristiche del nulla in cui Hegel indica nel tutto. Il tutto, l'Essere Assoluto, è il nulla e il nulla è il modo di pensare al tutto, perché solo ciò che germina dal tutto, il nulla della coscienza, diventa consapevole. Da qui il concetto secondo cui la morte è il nulla della coscienza razionale. La fine di un percorso di trasformazioni soggettive, negate da Heidegger, che attraverso la cura cerca di svegliare un dormiente anziché alimentare le trasformazioni soggettive dell'esserci.

Heidegger ha voluto introdurre il concetto di cura come legittimazione della schiavitù sull'individuo. Una schiavitù gestita attraverso la cura da schiavi nella funzione di schiavisti e che si trovano, alla fine del loro percorso esistenziale, a morire. La morte cancella la loro vita da schiavisti che praticavano la cura tenendo le persone nello stato di schiavitù. La loro libertà era la pratica della cura che garantiva loro il ruolo degli schiavisti.

Dal momento che la morte annulla il loro esserci, la cura diventa un sistema retorico con cui Heidegger maschera l'ideologia dello schiavista.

Il momento primario della cura è l'avanti-a-sé. Ma se l'avanti a sé è annullato dalla morte, l'avanti a sé non esiste, ma esisterebbe un per-sé della morte.

E qui si arriva alla negazione di quanto detto da Heidegger, la contraddizione di Heidegger in Heidegger. Dice: "Anche nel caso che l'Esserci, pur esistendo, non avesse più nulla «davanti a sé» e avesse chiuso i suoi conti», il suo essere sarebbe sempre determinato dall'«avanti-a-sé»". O c'è qualche cosa davanti a sé, o la morte del corpo fisico ha determinato il nulla davanti a sé. I cristiani affermano un paradiso, un'esistenza davanti a sé oltre la morte. I platonici e i buddhisti affermano la reincarnazione, un'esistenza davanti a sé oltre la morte. Partendo da tali esistenze oltre la morte, noi possiamo discutere sulla vita che porta l'individuo alla morte. Ma se noi non definiamo la morte le strade sono due. O ignoriamo la morte e affermiamo che la totalità dell'esistenza si sviluppa nel tempo presente e allora cerchiamo quali sono i metodi di vivere nel tempo presente che nulla hanno a che vedere con la Cura; oppure immaginiamo un oltre la morte che determini la qualità dell'esistenza e che viene favorito dalla pratica della Cura. Dico "immaginare" perché anche qualora ci fossero certezze, queste avrebbero il carattere della soggettività e riproposte oggettivamente hanno il valore dell'immaginato qualora non siano sufficientemente dimostrate o argomentate. Come il dio dei cristiani, l'anima di Platone, il paradiso, l'inferno, la reincarnazione e tutti gli altri fantasmi che si muovono nell'immaginario umano e che sono imposti dall'educazione ai bambini.

Heidegger fa un'operazione scorretta. Con giri di parole retorici sostituisce all'anima la coscienza come se prima di lui filosofi cristiani non avessero sostenuto che la coscienza dell'uomo è un prodotto dell'anima se non la manifestazione dell'anima nel corpo. Ma questo è un altro discorso, per ora accontentiamoci del fatto che Heidegger non "crede" che con la morte cessi l'esserci del soggetto, ma pensa ad un avanti-a-sé oltre la morte.

La disperazione non sottrae il soggetto alle sue responsabilità, ma non è sottratto dalle sue responsabilità nemmeno chi ha ridotto il soggetto alla disperazione per poi rinfacciargli le sue responsabilità. Tutta la vita è un avanti-a-sé, una corsa verso la morte che è il avanti-a-sé di ogni esistere.

Durante la lunga corsa verso la morte, manca sempre qualche cosa. Solo nel delirio di onnipotenza, che usa la cura come metodo per controllare e possedere le persone, c'è la sensazione che manca sempre qualche cosa per giungere alla rivelazione ontologica dell'in-sé. La cura descritta da Heidegger lascia l'uomo vuoto costringendolo a vivere possedendo e distruggendo le persone affinché le persone necessitino della sua attenzione, la sua cura. E la morte è avvolta dal rimpianto. Il rimpianto di non aver saputo vivere, il rimpianto di non aver coltivato la passione, il piacere; il rimpianto di aver buttato via la propria occasione vivendo in un delirio di onnipotenza.

Scrive Heidegger:

Tuttavia, nel momento stesso in cui l'Esserci «esiste» in modo tale che in esso non manchi assolutamente più nulla, esso è anche giunto al suo non-Esserci-più. L'eliminazione della mancanza di essere importa l'annichilimento del suo essere. Fintanto che l'Esserci è come ente, non ha ancora raggiunto la propria «totalità»; ma una volta che l'abbia raggiunta, tale raggiungimento importa la perdita assoluta dell'essere-ne1-mondo. Da allora non è più esperibile come ente. La ragione dell'impossibilità di esperire onticamente l'Esser-ci come ente totale, e quindi di determinarlo ontologicamente nel suo essere-un-tutto, non dipende da un'insufficienza dei nostri mezzi conoscitivi. L'impedimento viene dall' essere di questo ente. Ciò che non può essere tale quale la esperibilità possibile richiederebbe che l'Esserci fosse, si sottrae, in' linea di principio, a ogni esperibilità. Ma allora la comprensione della totalità ontologica dell'essere dell'Esserci non è un'impresa senza speranza? L'«avanti-a-sé», in quanto momento essenziale della struttura della Cura, è incontestabile. Ma lo è altrettanto anche ciò che ne inferimmo? Concludendo all'impossibilità di cogliere la totalità dell'Esserci, non abbiamo forse argomentato in modo puramente formale? 0, inavvertitamente, non abbiamo forse concepito l'Esserci come una semplice presenza a cui manca sempre qualcosa di non ancora presente? Siamo sicuri che il ragionamento abbia inteso il non-essere-ancora e l'«avanti-a-sé» in un senso genuinamente esistenziale? Discorrendo di «fine» e di «totalità», lo facemmo in modo fenomenicamente adeguato all'Esserci? Il termine «morte» aveva un senso biologico o ontologico-esistenziale? In ogni caso, era stato definito adeguatamente nel suo significato rigoroso? Infine: sono state effettivamente esaurite tutte le possibilità di accedere all'Esserci nella sua totalità? Bisogna dare una risposta a- queste domande, prima di dichiarare inconsistente il problema della totalità dell'Esserci. Questo problema, nel suo aspetto esistentivo concernente la possibilità di costituire un tutto come in quello esistenziale concernente la costituzione d'essere della «fine» e della «totalità», richiede un'analisi positiva di alcuni fenomeni esistenziali finora lasciati da parte. Al centro di queste ricerche sta la caratterizzazione ontologica del modo di essere-alla-fine proprio dell'Esser-ci e il raggiungimento di un concetto esistenziale della morte.

Tratto da Martin Heidegger Essere e Tempo ed. Longanesi 2001 pag. 285

E' un po' ambiguo affermare che "nel momento stesso in cui l'esserci "esiste" in modo tale che in esso non manchi assolutamente più nulla è anche giunto il suo non-Esserci-più". E' come dire che il soggetto può continuare ad esistere fino a quando non gli manca nulla, ma noi sappiamo che la morte coglie i soggetti nel bel mezzo della loro esistenza e non si informa se a loro non manchi più nulla. Ma quando arriva la morte effettivamente al soggetto non c'è più nulla che, nello stadio esistenziale che viene troncato, possa più avere.

L'essere non decide del momento della propria morte se non quando decide che il morire gli può dare più felicità che non il vivere. Ma in quel momento il vivere non ha più prospettive, non esiste più un oltre il momento presente, ma solo il salto qualitativo della vita, rappresentato dalla morte del corpo fisico, può dare a questo individuo la speranza della fine del dolore vissuto.

Mettere una persona in un forno crematorio si applica la cura di Heidegger decidendo che a quell'essere non manca più nulla ed è giunto il momento del suo non-Esserci-più. La cura non è rivolta a sé stessi, ma è rivolta al mondo, a quel giudicare il mondo proprio del dio padrone cristiano la cui cura (diluvio universale; strage di Sodoma e Gomorra, ecc.) Heidegger riproduce. Prendersi cura di sé stessi come creati dal padrone significa prendersi cura del mondo in quanto creato dal padrone e ridurlo alla dimensione voluta dal dio padrone. In questa attività la morte viene praticata ed alimentata come fine dell'esistenza perché né al dio padrone, né ad Heidegger, della vita, che non sia sottomissione alla sua cura, non importa nulla.

Per Heidegger è un'impresa senza speranza conoscere ontologicamente l'essere nell'esserci perché la sua continua ricerca del modello dell'esserci lo allontana dalla comprensione dell'attività dell'essere nel mondo attraverso la quale l'essere costruisce e trasforma continuamente sé stesso. Costruire è l'opposto di un esserci perché mentre l'esserci è il soggetto creato dal dio padrone di Heidegger che è nel mondo come essere, la costruzione dell'essere implica un'attività del soggetto volta alla ricerca dei mezzi e delle relazioni attraverso le quali modificare e costruire sé stesso sia modificando la qualità del sé stesso che si relaziona nel mondo sia la quantità della relazione e dei mezzi attraverso cui usa la sua volontà per modificare sé stesso. Dove l'esserci, nel senso usato da Heidegger, non esiste, ma esiste quell'abitare il mondo che modifica il soggetto che lo abita e nello stesso tempo il mondo abitato dal soggetto.

L'impossibilità considerata da Heidegger di "esperire onticamente l'esserci" come individuo assoluto, come superuomo, come ente, non dipenderebbe dall'insufficienza dei mezzi, ma dall'essere di questo ente che vogliamo conoscere. Ma l'essere che vogliamo conoscere non è un essere-in-sé immobile nello spazio e nel tempo, è un essere in continua modificazione: com'era a un anno? E a due anni? E a dieci anni? E a venti anni? Quand'era sposato? Quando era vedovo? Quand'era malato? C'è una continua trasformazione del soggetto che sfugge alla staticità del modello creazionista e che ha nella morte l'unico modello assoluto che può essere conosciuto in sé. Perché può essere conosciuto in sé? Perché rimane il cadavere. Il cadavere può essere conosciuto perché il cadavere è corpo senza trasformazioni dell'essere. Il cadavere può essere conosciuto; l'uomo che abita il mondo non può essere conosciuto perché è un soggetto in continua modificazione e trasformazione.

Ogni azione che fa l'uomo trasforma l'uomo. L'uomo muore all'insorgenza di ogni emozione, alla messa in atto di ogni azione e rinasce nuovo alla fine dell'emozione, alla fine dell'azione. C'è un continuo morire del precedente e rinascita della coscienza che segue un'azione o un'emozione. Solo il cadavere non manifesta emozioni e non mette in atto azioni. Proprio perché non mette in atto azioni può essere conosciuto in sé sopra il tavolo di un obitorio. Il cadavere non può morire.

La risposta alla domanda che pone Heidegger è semplice.

Heidegger chiede:

"Ma allora la comprensione della totalità ontologica dell'essere dell'esserci non è un'impresa senza speranza?"

La risposta è sì, è un'impresa senza speranza!

Il fatto è che l'oggetto della fantasia è un oggetto della fantasia, non è un oggetto di conoscenza se non nell'idealizzazione fantastica di un desiderio che nasce dalla sconfitta esistenziale. Il desiderio di una dimensione ontologica in cui l'essere esisterebbe in sé al di fuori delle rappresentazioni fenomenologiche e pensando tali rappresentazioni un'infima parte di un super-essere, è il desiderio frustrato che abita solo la fantasia di desideri malati da fallimento esistenziale.

In questa fantasia desiderante la cura è l'elemento che maggiormente va contestato perché il super essere che si prende cura del mondo è il suo macellaio, il suo carnefice. La cura verso il mondo è l'impedimento alla costruzione di sé stessi. Questa attività produce una chiusura della propria rappresentazione nel mondo cortocircuitandola in un delirio che si astrae dai fenomeni del mondo e che si pensa come oggetto in sé e non come soggetto che si manifesta nel mondo.

Ed ecco Heidegger rifugiarsi nel dubbio in cui la mancanza di dimostrazione di un aspetto del problema gli consente un'assoluzione per insufficienza di prove. Ma il dubbio del filosofo non è fonte della conoscenza. Al contrario. Il dubbio del filosofo è il marchio del proprio fallimento nella ricerca della conoscenza. Il filosofo non può aver dubbi. Nemmeno nell'errore. Non è consentito al filosofo commettere errori che non siano dovuti ad intime convinzioni che difende e giustifica con le argomentazioni.

Presentarsi davanti ad un interlocutore con i dubbi, certifica il fallimento del filosofo nella sua attività di abitare il mondo. Sospende il suo esserci in una dimensione di rinuncia alla vita.

La morte è il trionfo della vita. La vita dell'essere, l'esserci, ha come unico fine la morte, il non-esserci. Così l'esserci ha il solo scopo di portarci nel non-esserci.

Fra il nascere e germinare nell'esserci e il non-esserci c'è lo spazio nel quale esercitiamo la nostra volontà esistenziale nell'abitare il mondo. Ed è la qualità del nostro abitare il mondo, come noi lo abitiamo, le scelte che mettiamo in essere nell'abitare il mondo, che determinano il salto qualitativo della morte.

Cosa rimpiange l'individuo che sta morendo?

Il non aver curato (l'essersi preso cura di sé stesso) abbastanza la veicolazione della propria struttura emotiva nelle condizioni della propria vita. Aver rinunciato o limitato la ricerca della propria felicità, benessere, impegno. Non aver ampliato le proprie relazioni emotive con i soggetti nel mondo. Rimpiange la Cura che lo ha costretto a mettere in atto una ricerca ossessiva dell'imposizione della cura per ottenere un mondo obediente e sottomesso. Una sottomissione ottenuta con il dominio sia della politica, delle armi o del denaro e che è costata la rinuncia al piacere emotivo.

Il rimpianto di chi sta morendo è volto a tutte quelle cose che avrebbe potuto dire e non ha detto quando poteva dirle; a tutte quelle cose che avrebbe dovuto fare quando poteva farlo. Il rimpianto di non aver vissuto al meglio del meglio in un rinvio continuo delle decisioni e delle scelte che presuppone la certezza di un'immortalità che concede tempo infinito e possibilità infinite di poter fare le scelte che non si sono fatte.

Heidegger vive solo la sua angoscia, la sua disperazione, la sua paura di un abitare il mondo dal quale è separato e la sua visione ontologica serve a rassicurarlo dell'esistenza di un Heidegger diverso da come i fenomeni di Heidegger manifestano Heidegger. Heidegger pensa un Heidegger diverso dai fenomeni dell'Heidegger, un Heidegger fantastico vicino all'immagine del dio padrone; Heidegger pensa quell'Heidegger e dunque quell'Heidegger deve esistere altrimenti Heidegger non lo potrebbe pensarlo.

E mentre pensa la sua dimensione ontologica, Heidegger vive l'angoscia e la disperazione della morte del suo corpo fisico.

Ma non era nato al solo scopo di morire?

Lo sapeva.

Lo sapeva chi lo ha generato.

Lo spazio che sta fra la nascita del corpo fisico e la morte dello stesso, è il terreno in cui l'uomo si misura nelle relazioni con il mondo. Così la morte può essere il più grande desiderio dell'uomo che ha vissuto con passione o la disperazione dell'uomo che è vissuto per appropriazione.

Rifugiarsi in una visione ontologica equivale a fuggire dalle relazioni fenomenologiche con i soggetti della vita. Equivale a separarsi dal mondo. Equivale a trasformare la morte in un'angoscia senza fine che uccide l'uomo giorno dopo giorno.

La morte del corpo fisico è il trionfo della vita, ma perché ciò sia possibile è necessario che la vita sia relazione fenomenologica in una continua ricerca di espansione del soggetto nel mondo in relazione ai soggetti del mondo.

Come sarà la morte? Come noi l'abbiamo costruita vivendo fenomenologicamente nel mondo.

08 marzo 2015

NOTA: utilizzato:

Martin Heidegger, Essere e Tempo editore Longanesi 2001 pag. 284 - 285

 

Teoria della Filosofia Aperta - Volume cinque

 

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Marghera, 08 marzo 2015

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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e-mail: claudiosimeoni@libero.it

La Teoria della Filosofia Aperta

Le idee si presentano alla ragione come dei lampi intuitivi. Illuminano per un attimo la ragione e poi tendono a sparire annullate da una ragione che tende a riprendere il controllo sull'individuo. Le idee sono un'emozione che insorge con violenza dentro di noi e modifica la nostra descrizione del mondo, una descrizione che la ragione tende a ripristinare ma che l'emozione ha definitivamente compromesso. Una nuova descrizione, una nuova filosofia emerge dentro di noi e noi, qualunque sia il nostro grado di cultura, dobbiamo comunque confrontarla con la cultura del mondo in cui viviamo.